Il 2006 può essere identificato come l'anno della svolta per le terapie molecolari. Dal punto di vista della ricerca i risultati ottenuti con gli studi genomici indicano che nei prossimi cinque anni avremo a disposizione un numero di terapie molecolari sufficienti per ridurre drasticamente l'utilizzo delle cure chemioterapiche più tossiche, a favore di cure mirate e personalizzate. Gli strumenti si sono moltiplicati: allo IEO è stato messo a punto un test (CEC, circulating Epitelial cells) che, attraverso un semplice esame del sangue, determina l'efficacia delle terapie antiangiogenetiche - quelle cioè che hanno l'obiettivo di ridurre la massa tumorale bloccando la formazione di vasi che portano il sangue al tumore per nutrirlo - per modulare le dosi in base alla risposta individuale al farmaco. La genomica è ormai vicina ad ottenere una vera e propria mappa dei geni di ogni tumore e della loro attività (gene expression profile). Su questa mappa l'oncologo clinico può costruire la terapia per ogni malato. In particolare può capire quali tumori hanno tendenza a metastatizzare. Sono di grande aiuto in questo senso anche gli studi sulle cellule staminali tumorali, cioè quelle cellule capaci di formare un secondo tumore in organi o tessuti diversi da quelli d'origine. È importante l'identificazione delle staminali tumorali del carcinoma del colon, ottenuta alla fine di quest'anno da un' équipe tutta italiana.
* Direttore scientifico Istituto Oncologico Europeo
Informazione scientifica sull'oncologia e la psiconcologia A cura dal Dr. Massimiliano Zisa, Ipnotista, Psicologo e Psicoterapeuta Firenze.
martedì, gennaio 02, 2007
La "svolta" molecolare
lunedì, dicembre 11, 2006
Troppe proteine? Rischio di tumori
“Prevenire le malattie cronico-degenerative associate agli scorretti stili di vita ed implementare strategie in grado di promuovere un invecchiamento ottimale è una sfida importante per il futuro e uno degli obiettivi della ricerca del nostro Istituto, tanto più che è sempre più evidente come l’incremento della vita media della popolazione italiana non sia accompagnato da un parallelo miglioramento della qualità di vita", spiega Enrico Garaci, Presidente dell’ISS. "Proprio per questo motivo, apriremo all’ISS un Centro, dotato di una sorta di ‘cucina metabolica’, di una palestra e di ambulatori, dove studiare i meccanismi attraverso cui una corretta alimentazione e l’esercizio fisico rallentano l’invecchiamento di organi e tessuti nell’uomo e prevengono le malattie croniche-degenerative in soggetti che non hanno ancora subito danni organici irreversibili”.
I ricercatori hanno preso in esame tre gruppi di individui pareggiati per età e per sesso: 21 vegetariani crudisti che assumevano una media giornaliera di 0.73 grammi di proteine per chilogrammo di peso corporeo, 21 atleti specializzati nella corsa di resistenza, allenati a percorrere poco meno di 80 km alla settimana e nella cui dieta erano compresi 1.6 grammi di proteine giornaliere per chilogrammo di peso corporeo e un gruppo di persone sedentarie che assumevano una tipica dieta americana con 1.23 grammi di proteine per chilo di peso.
“La stretta correlazione tra alimentazione e alcune delle più comuni forme di cancro è un’ipotesi abbastanza fondata", afferma Luigi Fontana, ricercatore dell’ISS e coordinatore dello studio. "I meccanismi, tuttavia, attraverso cui i diversi alimenti promuovono o proteggono dal cancro non sono ancora chiari. E’ ormai assodato che le persone in sovrappeso ed obese hanno un aumentato rischio di sviluppare il cancro del colon, dell’endometrio, del rene, dell’esofago e della mammella soprattutto dopo la menopausa. Esistono tuttavia due forme tumorali che non sono associate all’eccessivo accumulo di grasso: il cancro alla prostata e il tumore della mammella nelle donne in età premenopausale”. Dalla ricerca è emerso che una dieta ipoproteica potrebbe essere in grado di proteggerci da queste forme di cancro più dell’esercizio fisico, indipendentemente dalla quantità di grasso corporeo.
“Nel corso della nostra indagine abbiamo constatato che sia gli individui che praticavano da lungo tempo un regime alimentare caratterizzato da un basso apporto proteico nell’ambito di una dieta relativamente ipocalorica, sia gli atleti, abituati a svolgere attività fisica con regolarità e precisione, mostravano un basso contenuto di grasso corporeo e di conseguenza dei valori più bassi d’insulina, di testosterone libero e di citochine pro-infiammatorie. L’apporto proteico giornaliero corretto secondo le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dovrebbe essere di 0.8 grammi/Kg/die di proteine, che è molto simile a quello che gli individui che seguono la dieta ipoproteica arruolati nello studio mangiano, mentre molti americani e molti italiani mangiano 1.2 - 1.6 grammi/Kg di proteine al giorno", afferma Fontana, "cioè mangiano circa il 30 - 50 per cento in più di ciò che è raccomandato dagli esperti. E’ ormai chiaro che se aumentiamo del 30 - 50 per cento rispetto al fabbisogno le calorie introdotte giornalmente diventiamo obesi, tuttavia, paradossalmente, non sappiamo cosa succede se mangiamo cronicamente più proteine di quelle che sono necessarie per mantenere un bilancio azotato neutro. Il problema è che nei paesi industrializzati, e purtroppo ora anche in quelli in via di sviluppo, non si mangiano quantitativi sufficienti di verdura, legumi, cereali integrali e frutta, di conseguenza la nostra dieta si compone troppo spesso prevalentemente di prodotti di origine animale (carne, formaggio, uova e burro), cereali eccessivamente raffinati e zuccheri semplici, che a lungo andare sono deleteri per la salute perché estremamente calorici e perché troppo ricchi di proteine e sale, caratteristiche queste che costituiscono potenti fattori di rischio per l’obesità addominale, per il diabete, per l’ipertensione arteriosa, per le malattie cardiovascolari e per taluni tipi di cancro”.
Fonte: Ufficio stampa ISS 2006.
A cura de Il Pensiero Scientifico Editore
Quando si dice fumarsi il cervello...
Che il fumo non faccia bene alla mente non è un’idea nuova. La dipendenza dal fumo, come tante altre dipendenze, avviene proprio perché le sostanze prodotte dalla sigaretta vanno a stimolare una risposta in certe aree cerebrali, ad esempio quelle preposte alla percezione del dolore e del piacere. Con le attuali tecniche di imaging i ricercatori sono in grado di "vedere" ciò che avviene nel cervello mentre si pensa, si compie un’azione, si prova un’emozione o si assume una sostanza; così grazie a una moderna tecnica che permette di studiare in tempo reale la concentrazione nel cervello di sostanze neuroattive prodotte dal metabolismo, alcuni ricercatori dell’Università di Bonn sono riusciti ad analizzare come il metabolismo cerebrale viene alterato a causa dell’abitudine al fumo.
Sono state prese in esame diverse sostanze naturalmente prodotte durante l’attività cerebrale. I soggetti fumatori, sottoposti a questa tecnica d’avanguardia per l’imaging cerebrale, hanno mostrato alterazioni nella concentrazione di tali sostanze. Ad esempio la creatina totale, che altri studi hanno notato essere legata al rischio di ricadute in soggetti dipendenti da sostanze d’abuso, è più elevata nei lobi frontali del cervello dei fumatori. Sono risultati invece a concentrazioni più scarse del normale altri due prodotti del metabolismo cerebrale: la colina, importante per salute delle membrane cellulari, e l’N-acetilaspartato, che scarseggiava nell’area cerebrale reattiva alle sensazioni piacevoli o dolorose. In particolare, la colina era a livelli bassi soprattutto nelle donne fumatrici, mentre l’N-acetilaspartato era tanto più scarso quante più sigarette il soggetto fumava in un anno.
Gli autori della ricerca hanno fatto notare come, in base a precedenti studi, la bassa concentrazione di queste sostanze nel cervello spesso si riscontri in soggetti sofferenti di disturbi dell’umore e di altre patologie psichiatriche, il che getta un’ombra ulteriore sugli effetti che questo "vizio" tanto comune provoca a livello cerebrale, invitando a non prendere sottogamba quest’abitudine e prestare maggiore attenzione alla salute del proprio cervello.
Fonte: RSNA 2006: Strenghtening professionalism. 2-8 dicembre 2006, Chicago.
venerdì, novembre 17, 2006
Fumo e sale nemici dell'esofago
Per la prima volta utilizzando un vasto campione di individui (3153 persone con i sintomi del reflusso e 40.210 persone sane) il team svedese ha dimostrato che il rischio di tale disturbo, che può avere conseguenze anche sulla salute del cuore, è il 20 per cento più alto nei fumatori che hanno il vizio da 1-5 anni, ma si impenna al 70 per cento nei fumatori da 20 anni o più. Lo studio sarà pubblicato sul periodico specializzato Gut.
E a fare compagnia al fumo tra i colpevoli, hanno detto gli specialisti, c’è anche un altro “vizio”, quello di salare in abbondanza le pietanze, in particolare di tener fede all’abitudine del sale a tavola per fare qualche “ritocco” alla salatura fatta durante la preparazione del pasto.
Chi ha questa pessima abitudine, deleteria anche per la salute cardiovascolare, ha un rischio di soffrire di reflusso più alto del 70 per cento. Invece, hanno detto gli esperti, sembra che il pane integrale e la ginnastica siano due fattori protettivi.
Si hanno numerosissime informazioni sul reflusso gastroesofageo e sulle sue conseguenze a lungo termine (si tratta tra l'altro di un disturbo che, se in forma grave e non trattata, può costituire un fattore di rischio per il tumore dell'esofago), hanno concluso gli esperti in gastroenterologia, ma ancora non si era in possesso di prove conclusive circa gli stili di vita da evitare, anche se alla sbarra erano stati già additati molti sospetti.
Bibliografia. Nilsson M, Johnsen R, Ye W et al. Lifestyle related risk factors in the aetiology of gastro-oesophageal reflux. Gut 2004; 53: 1730-1735.
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venerdì, ottobre 20, 2006
Tumore della pelle
A cura de Il Pensiero Scientifico Editore
Le cellule tumorali della pelle, se colpite con una luce laser blu, emettono delle onde che possono essere rilevate da specifici apparecchi; la tecnica può rilevare fino a dieci cellule cancerogene in un campione di sangue ed è stata messa a punto dai ricercatori dell’Università del Missoury-Columbia. Il lavoro è stato pubblicato sull’ultimo numero della rivista Journal of Optics Letters.
In particolare sono i granuli di melanina che colpiti dalla luce laser assorbono l’energia prodotta dal fascio e la rilasciano sotto forma di calore; questo cambiamento di temperatura genera una parziale rottura dei granuli di melanina accompagnati da un "sonoro" rumore che si propaga nel tessuto come uno tsunami e può essere captato da rilevatori fotoacustici.
Le onde sonore prodotte dai granuli di melanina sono ultrasuoni ad alta frequenza che possono essere rilevati con speciali microfoni e analizzati al computer. Il melanoma è un tumore maligno che origina dai melanociti (cellule che producono melanina) i quali perdono l’inibizione da contatto e continuano a dividersi producendo grandi quantità di granuli di melanina. Le cellule tumorali, dunque, per il loro alto contenuto in melanina se irraggiate con luce laser producono una risposta rispetto alle cellule sane e pertanto possono essere rilevate.
"Questo nuovo test ci permetterà di individuare un numero maggiore di tumori e, auspicabilmente, anche precocemente", ha dichiarato John Viator, ingegnere biomedico e coautore della ricerca. "Il solo motivo per cui si può trovare della melanina nel circolo sanguigno è perché vi sono dei melanociti impazziti. Il test messo a punto nel nostro laboratorio è in grado di verificare la presenza di cellule tumorali e la loro concentrazione in soli trenta minuti; può dunque essere utile sia in fase diagnostica sia dopo la terapia per verificare se il tumore è stato estirpato", ha concluso Viator.
Fonte: Weight RM et al. Photoacoustic detection of metastatic melanoma cells in the human circulatory system. Optics Letters 2006; 31(20):2998-3000.
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lunedì, ottobre 09, 2006
TERAPIE PSICOLOGICHE E SOPRAVVIVENZA
U.O. di Oncologia Medica - U.O. di Radioterapia, A.O. di Padova
A partire dagli anni ’70 l’aumento delle possibilità di cura dei tumori ha spinto discipline quali l’oncologia, la psicologia, la psichiatria e l’assistenza sociale ed infermieristica ad un crescente interesse per le problematiche psicologiche connesse alla sopravvivenza e, quindi, per l’approccio psicosociale al cancro. In tal senso, negli ultimi trent’anni sono stati compiuti notevoli passi avanti: la ricerca psico-oncologica si è diffusa in un gran numero di paesi allo scopo di analizzare l’impatto psicosociale del cancro su pazienti, famiglie e personale curante e di approfondire il ruolo delle variabili psicologiche e comportamentali nella prevenzione, nella diagnosi precoce e nella cura delle neoplasie. Pertanto, ora la domanda corretta da porsi non è più “E’ utile l’intervento psicologico?”, ma “Quali interventi, diretti verso quali fini, con quali pazienti e con quali modalità di conduzione, sono efficaci?”.
Tra i numerosi interventi psicologici sperimentati i più conosciuti sono i seguenti:
1) le psicoterapie individuali, ad orientamento psicodinamico (es. la terapia di LeShan) o di tipo cognitivo-comportamentale (es. l’Adjuvant Psychological Therapy di Moorey e Greer ), di cui si sono ottenute evidenze sperimentali di utilità nelle diverse fasi della malattia neoplastica;
2) le psicoterapie di gruppo, anch’esse ad orientamento dinamico o cognitivo-comportamentale, o i gruppi di supporto, particolarmente utilizzati con le donne affette da carcinoma della mammella;
3) le numerose varianti di training comportamentale tra cui le tecniche di rilassamento, il biofeedback, l’ipnosi, ecc., che sono risultate efficaci nella riduzione dello stress emotivo, dell’astenia e del dolore;
4) gli interventi psicoeducazionali, individuali o di gruppo, che rappresentano la modalità relativamente più recente di approccio psicosociale al cancro. Essi possono consistere in programmi diversi ma la struttura di base che li caratterizza è quella di coniugare la componente strettamente informativo-educativa con la componente di supporto psico-emozionale. Questi interventi stanno mostrando notevoli benefici sia sugli stati affettivi che sulle capacità di adattamento al cancro, soprattutto in fase postchirurgica e con pazienti in fase iniziale di malattia e buona prognosi.
Nel campo della terapia psicosociale al cancro sono stati condotti numerosi studi che hanno dimostrato l’efficacia delle terapie psicologiche nei malati di cancro, inoltre si registrano molteplici tentativi, più o meno validi, di analizzare le possibili interazioni tra fattori psicosociali e fattori biologici; eppure pochissime ricerche hanno cercato di esaminare gli effetti medici degli interventi psicologici in modo prospettico col fine di indagare eventuali influenze rispetto alla sopravvivenza. Infatti, nella letteratura psico-oncologica internazionale è possibile rintracciare solamente due studi sperimentalmente condotti e ben documentati: lo studio Spiegel e coll.(1981, 1989)(1, 2) e quello di Fawzy e coll.(1990, 1993)(3, 4, 5).
Lo studio di Spiegel era finalizzato alla valutazione degli effetti immediati e a lungo termine di una terapia di gruppo sulla sopravvivenza in 58 donne affette da carcinoma della mammella in metastasi. Le pazienti furono assegnate casualmente ad un gruppo di intervento (cure oncologiche mediche + terapia di gruppo settimanale per la durata di 1 anno) e ad un gruppo di controllo (solo cure oncologiche mediche). Dopo 1 anno dall’intervento il gruppo in trattamento psicoterapico mostrava, rispetto al gruppo di controllo, un livello inferiore di disturbi dell’umore (depressione, ansia, fobie) ed una riduzione significativa del dolore.
A distanza di 10 anni il tempo di sopravvivenza era risultato significativamente più lungo per il gruppo di intervento, con una media di 36.3 mesi rispetto ad una media di 18.9 mesi registrata nel gruppo di controllo. Inoltre i dati mostrarono che livelli più bassi del disturbo dell’umore e livelli più elevati di vigore, rilevati alla fine della terapia psicologica di gruppo, risultavano correlati significativamente ad una maggiore longevità.
Lo studio di Fawzy è stato sperimentato su 66 pazienti affetti da melanoma cutaneo in fase iniziale col proposito di valutare gli effetti immediati e a lungo termine di un intervento psicoeducazionale strutturato, della durata di 6 settimane, sugli stati affettivi e su alcune misure della funzione immunitaria. I risultati di questa ricerca hanno mostrato nei soggetti sottoposti all’intervento (n=38), rispetto ai soggetti di controllo (n=28), una significativa riduzione dello stress psicologico ed un effettivo miglioramento dell’adattamento alla malattia. Inoltre lo studio immunologico riscontrò nel gruppo sperimentale un aumento delle cellule NK e della loro attività citotossica. Gli stessi Autori a distanza di 6 anni effettuarono uno studio di follow-up finalizzato a valutare la recidiva e la sopravvivenza nei pazienti che avevano partecipato alla precedente ricerca. Il gruppo di controllo mostrò una tendenza alla recidiva (13 pazienti su 34) ed un tasso di mortalità significativamente maggiori (10 pazienti su 34) rispetto ai pazienti sperimentali (rispettivamente 7 pazienti su 34 e 3 pazienti su 34).
La ricerca di Fawzy e coll. è stata da noi ripetuta nella realtà italiana (Capovilla e coll., 1999)(6), a Padova, su 19 pazienti affetti da melanoma cutaneo in stadio iniziale e buona prognosi, casualmente assegnati ad un gruppo sperimentale (intervento psicoeducazionale+valutazione psico-immunologica) e ad un gruppo di controllo (valutazione psico-immunologica). Trattandosi di uno studio pilota i risultati sono limitati ma, nonostante ciò, essi evidenziano al termine dell’intervento nei soggetti sperimentali, rispetto a quelli di controllo, delle variazioni a livello psicologico (spirito combattivo e qualità di vita) ed una maggiore potenzialità di risposta immunitaria, sia cellulo-mediata che anticorpo-mediata. I dati relativi alla sopravivenza sono attualmente in fase di valutazione e verranno descritti in sede congressuale.
In conclusione, lo studio della possibile influenza delle terapie psicologiche sulla sopravvivenza è un campo che necessita di ulteriori indagini. Infatti, le relazioni tra sistema immunitario, cancro e stress sono molto complesse e non sono ancora state chiaramente determinate in modo scientifico. In ogni caso, sembra ormai evidente il ruolo degli aspetti psicologici, comportamentali e sociali sull’approccio al cancro e sulle modalità di adattamento ad esso.
www.psicolife.com Psicologia e Ipnosi Terapia a Firenzegiovedì, settembre 14, 2006
Contro il melanoma le cellule "ogm"
Cento anni fa nasceva la chemioterapia per combattere il cancro, da allora l'oncologia, a piccoli passi, è arrivata lontano. Con questa riflessione si è aperto, a Milano, il convegno Targeted Therapies in cancer: mith or reality?, organizzato da Francesco Colotta del Nerviano Medical Science e da Alberto Mantovani dell'Istituto Clinico Humanitas. E' possibile curare il cancro con terapie sempre più personalizzate, tanto da debellarlo a da trasformarlo in una malattia cronica? Leggendo la stampa scientifica sembrerebbe di sì.
Manipolazione
L'ultimo esempio risale a poche settimane fa. La rivista Science riferiva i risultati di una sperimentazione condotta dall'equipe di Steven Rosenberg, al National Cancer Institute di Bethesda nel Maryland, su 17 malati affetti da gravi forme metastatiche di melanoma (tumore della pelle). Manipolando geneticamente specifiche cellule del sistema immunitario dei pazienti (linfociti T), gli scienziati sono riusciti a guarire due persone che da diciotto mesi non presentano più alcun sintomo. Lo stesso Rosenberg, però, guarda con molta prudenza a questo risultato, anche se è convinto che la terapia con cellule immunitarie, modificate grazie all'ingegneria genetica, rappresenti il futuro.
"Pochi anni fa" spiega Mantovani "lo stesso Rosenberg ha scoperto che, in rari e fortunati casi, il sistema immunitario di alcuni pazienti afflitti da melanoma è in grado di riconoscere le cellule tumorali e di scatenarsi contro di esse, fino a debellare la malattia (remissione spontanea). Questi linfociti possiedono un recettore capace di riconoscere in modo specifico le cellule neoplastiche. Nell'ultima sperimentazione l'equipe statunitense ha prelevato i linfociti dei 17 pazienti, lì ha modificati geneticamente, inserendo il recettore specifico, e lì ha fatti crescere in provetta.
Rosenberg ha ottenuto così un piccolo esercito di "soldati ogm" ben addestrati a combattere il tumore. Attenzione però a non enfatizzare questo risultato troppo esiguo nei numeri e da verificare".Questione di compatibilità"Dal punto di vista tecnico il lavoro è ben fatto" commenta Malcon Brenner del Center for Cell and Gene Therapy di Houston. "Per utilizzare questa metodica in campo clinico sarebbe necessario, però, raggiungere valori di risposta più elevati. Tuttavia non ci si può aspettare grandi numeri: i pazienti che hanno una possibilità di reagire alla cura sono quelli che possiedono un particolare insieme di geni di istocompatibilità (HLA A II), presenti solo nel 50% della popolazione.
Il gruppo studiato a Bethesda possedeva questo tipo di background genetico, ma tuttavia si è avuto un esito positivo solo nel 10% del totale". "Ciò vuol dire che, se i dati sperimentali saranno confermati,", conclude Brenner, "solo un esiguo numero di pazienti potrà beneficiare di questa terapia. Va da se che un approccio immuno-mediato per combattere alcuni tumori, come melanoma, carcinoma renale, tumore dell'intestino, linfoma, leucemia e forse mieloma, è molto promettente e notevolmente complesso".
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lunedì, agosto 28, 2006
Diabete e Tumore
Uno studio coordinato da Ricercatori dello Houston Veterans Affairs Medical Center ha valutato l’associazione tra il diabete e la malattia epatica cronica.Sono stati identificati tutti i pazienti che tra il 1985 e il 1990 sono stati dimessi dall’ospedale con una diagnosi di diabete.
Questi pazienti sono stati seguiti fino al 2000.Sono stati esclusi i soggetti affetti da concomitante malattia epatica.I soggetti presi in esame sono stati 173.643 con diabete e 650.620 senza diabete.
La maggior parte ( 98% ) era di sesso maschile e quelli affetti da diabete erano più anziani rispetto a quelli senza diabete ( 62 versus 54 anni ).
L’incidenza di malattia epatica cronica non-alcolica è risultata molto più alta tra i pazienti diabetici ( 18.13 contro 9.55, rispettivamente, per 10.000 persone-anno ).
Simili risultati sono stati ottenuti per il carcinoma epatocellulare ( 2.39 contro 0.87, rispettivamente, per 10.000 persone-età ).Il diabete era associato ad un indice di rischio ( hazard rate ratio , HRR ) di 1.98 per la malattia epatica cronica non-alcolica e di 2.16 per il carcinoma epatocellulare.
I pazienti con diabete da più di 10 anni presentavano il massimo rischio.Questo studio ha dimostrato che tra gli uomini affetti da diabete il rischio di malattia epatica cronica non-alcolica e di carcinoma epatocellulare è raddoppiato.
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giovedì, agosto 24, 2006
Nicotina e Cancro
Sebbene la nicotina contenuta nel tabacco non avesse dimostrato effetti cancerogeni diretti , i ricercatori hanno sospettato per molti anni che essa avesse un ruolo nel promuovere la crescita tumorale. Recentemente uno studio Statunitense ha aggiunto nuove prove a questa teoria. Questi nuovi dati richiamano l’attenzione sull’uso a lungo termine della nicotina come terapia sostitutiva nella disassuefazione dal tabacco. I ricercatori del National Cancer Institute di Bethesda e del Lovelace Respiratory Research Institute di Albuquerque hanno studiato gli effetti della nicotina e del NNK, una sostanza cancerogena specifica del tabacco, su colture di cellule epiteliali bronchiali umane normali.
Basandosi su precedenti studi che avevano dimostrato l’attività del sistema enzimatico Akt nelle cellule di cancro del polmone prelevate da fumatori i ricercatori hanno ipotizzato che composti come la Nicotina e NNK potessero avere effetto sul sistema enzimatico Akt anche nelle cellule normali del polmone. Il sistema enzimatico serina/treonina kinasi Akt regola diverse attività cellulari come la crescita cellulare e l’apoptosi. L’ipotesi formulata dai ricercatori è che le cellule con danni al DNA in presenza di Akt attivata possono più facilmente sopravvivere e crescere e quindi possono accumulare altri danni al DNA promuovendo la trasformazione da cellule precancerose a cellule cancerose. I risultati dello studio hanno dimostrato che le concentrazioni di nicotina e di NNK pari a quelle che si raggiungono nel sangue dei fumatori attivano la cascata enzimatica dell’Akt. L’attivazione dell’Akt avviene in pochi minuti e rende le cellule epiteliali normali dell’epitelio bronchiale più simili alle cellule cancerose .L’apoptosi viene inibita e viene stimolata la crescita delle cellule malate .Lo studio dimostra che lo sviluppo del cancro del polmone è più complesso di quanto si pensasse prima e che l’attivazione dei segnali di trasduzione a livello cellulare contribuisce alla cancerogenesi tabacco correlata. Lo studio potrebbe aprire, inoltre ,un nuovo filone di ricerca per farmaci antitumorali. Alcuni hanno suggerito per la nicotina un nuovo meccanismo d’azione nella cancerogenesi che implicherebbe la promozione dello sviluppo dei vasi tumorali. La scoperta che la nicotina possa promuovere la crescita tumorale ha implicazione per i consumatori dei sistemi di rilascio della nicotina? Questi prodotti sono sicuri?
Per quanto emerge dagli studi attuali non ci sono ancora motivi per controindicare l’uso dei dispositivi di rilascio della nicotina per le 10 o 12 settimane previste per la terapia sostitutiva in corso di sospensione del fumo di tabacco e i vantaggi della cessazione del fumo sono senz’altro maggiori dei rischi associati nel breve periodo all’assunzione della nicotina. Oltre tale periodo non possiamo affermare che l’uso della nicotina sia sicuro.www.psicolife.com Psicologia e Ipnosi Terapia aFirenze
mercoledì, agosto 16, 2006
Oncologia, "rivoluzione" dai mass-media
La forte domanda di informazione esercitata dai cittadini su problemi relativi ai tumori si è tradotta in un'offerta sempre più articolata e multiforme. "La comunicazione sulla salute in genere", dice Giorgio Cruciali, neo presidente della Cipomo, "ha assecondato e favorito l'evoluzione del rapporto cittadino-medicina-salute. Il paziente è oggi più consapevole e, grazie ai mass-media, può fare scelte, concordate con il medico, per organizzare una terapia individuale".
I mezzi di informazione illustrano e raccontano le innovazioni in oncologia e i più recente ritrovati anti-tumorali.
Televisioni e giornali, dopo i professionisti del settore, sono le fonti di informazione sanitaria non professionale che, per la loro ascendenza e conoscenza del sociale, finiscono con il modificare il comportamento pubblico de rendendosi uniche e preziose: "Una mutazione", dice Concetta Maria Vaccaro, responsabile del settore Welfare Fondazione Censis, "dovuta all'acquisizione di informazioni su "quella patologia" favorita anche dalla forte differenziazione operata dai quotidiani che riportano più del 20% di articoli legati alla prevenzione oncologica, che superano il 40% quando pubblicati sui settimanali".
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venerdì, agosto 11, 2006
Da un’alga dei mari del nord una difesa per l’utero
Ma ha destato l’interesse anche dei medici perché promette di essere un deterrente contro il papilloma virus umano, in sigla HPV, noto come il principale responsabile delle infezioni che possono portare ad un tumore del collo dell’utero. Un effetto preventivo che la rivista Nature ha definito “sorprendente”, dal momento che il contagio del virus, trasmesso attraverso l’attività sessuale, viene ostacolato anche con una piccola quantità di carragenina, un ingrediente facile da reperire, economico e che pare agire a concentrazioni molto più basse rispetto ai prodotti attualmente in commercio.
La carragenina è contenuta in diversi tipi di gel lubrificanti vaginali, attualmente in commercio, che vengono classificati come sicuri dalle autorità sanitarie: un aspetto che, come sottolineano gli esperti, avvicina la prospettiva di avere presto a disposizione un microbicida topico in forma di gel. Gli autori dello studio, pubblicato sulla rivista Public Library of Science Pathogens, specificano che serviranno studi clinici specifici prima di poter raccomandare come inibitore dell’HPV un prodotto a base di carragenina.
Secondo N. K. Ganguly, capo dell’Indian Council of Medical Research, se la carragenina venisse aggiunta ad un inibitore dell’HIV, potrebbe rappresentare un’importante arma preventiva contro le malattie sessualmente trasmesse. Ma altre ricerche sono ancora necessarie.
sabato, agosto 05, 2006
Terapia chelante
a cura della Dott.Virginia A.Cirolla*
La chelazione e' un processo che s'incontra frequentemente in natura, nel quale metalli inorganici come ferro, platino, formano complessi con la materia organica.
Il suo utilizzo terapeutico ha avuto inizio nel 1893, sulla scia del nobel Werner che ipotizzo' la formazione di un anello stereotrofico, diverso dal modello di valenza, nel processo di chelazione. Nel 1955 il Dott.Clark informava la comunita' scientifica dei benefici dell'EDTA per curare i disturbi circolatori e cardiovascolari. Quel gruppo pionieristico fondo' quella che oggi e' l'ACAM (American College of Advancement in Medicine) e che comprende oltre 1000 medici specializzati nell'uso terapeutico della Terapia Chelante, oltre ad una buona conoscenza dei trattamenti nutrizionali per le malattie vascolari, degenerative e dell'invecchiamento tessutale.
Sono in corso studi ammessi dalla FDA per dimostrare l'innocuita' dell'EDTA. (Etilediaminotetracetato)
Oggi la chelazione e' utilizzata per eliminare dal corpo umano metalli tossici (Piombo, Mercurio, Cadmio, Alluminio) e per fermare il processo di aterosclerosi.
Un meccanismo d'azione consiste nella rimozione del calcio dalla placca aterosclerotica senza sottrarlo la' dove e' fondamentale per i normali processi dell'organismo e stimola la circolazione del sangue attivando il microcircolo.
Eliminando i metalli di transizione produce un effetto antinfiammatorio diminuendo i radicali liberi che sappiamo come molecole distruttive e lesive nei tessuti. Questa terapia inserita nei protocolli SITEC (Societa' Italiana di Terapia Chelante) unisce un insieme di farmaci antiossidanti e disintossicanti, utilizzati oltre che nelle malattie cardiovascolari anche nelle patologie degenerative ed autoimmuni come l'artrite reumatoide e la sclerosi multipla. E' proprio la sclerosi multipla considerata un mercurialismo cronico a risentire in positivo della terapia chelante.
In Oncologia la sua applicazione ha trovato negli ultimi anni risultati positivi per il suo ruolo di protezione immunitaria e si e' rivelata utile sia nella prevenzione sia negli aspetti terapeutici anche dopo cicli di chemioterapia.
Come terapia e' assolutamente innocua se praticata da mani esperte; deve essere somministrata per endovena lenta per tre ore circa con un frequenza media di una volta a settimana. Nella maggior parte dei pazienti in cui e' stata utilizzata, questa terapia ha provocato un miglioramento della circolazione cerebrale e periferica, un miglioramento della memoria e delle capacita' cognitive, della vista per deficit su base vascolare, riduzione significativa della mortalita' per tumore (come terapia preventiva), una disintossicazione dai metalli pesanti ed un beneficio effetto sulla vitalita' e sullo stato di salute in generale.
*Universita' La Sapienza
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Tumori: scoperte staminali nocive
Responsabili delle recidive nel cancro
Cellule staminali non sono sempre sinonimo di positività. Nell'immaginario comune quando si sente parlare di cellule staminali si pensa sempre alla ricerca su cellule bambine in grado di fare prodigi trasformandosi nei tessuti di volta in volta necessari, ma non è sempre così. Sono state identificate le cellule staminali cosiddette cattive, responsabili della crescita del tumore. La massa tumorale contiene, infatti, al suo interno, un nucleo di cellule progenitrici capaci di riprodursi e resistenti ai trattamenti anti-cancro. Mille volte più potenti delle cellule tumorali normali, queste staminali cattive sarebbero responsabili della ripresa della malattia dopo un intervento chirurgico o il trattamento farmacologico.
Lo studio, tutto italiano, su staminali adulte e rivolto al cancro del seno, è stato condotto dal team del Dipartimento di oncologia sperimentale di Marco Pierotti dell'Istituto nazionale tumori di Milano e pubblicato su Cancer Research. "Abbiamo messo a punto un modello sperimentale, sfruttando 14 frammenti chirurgici di donne operate per tumore - spiega Pierotti, illustrando la ricerca condotta da Dario Ponti, in occasione degli 80 anni dell'Int - e ottenendo così una serie di 'mammosfere"'.
Queste cellule staminali, presenti in una minima frazione nella massa tumorale e identificabili in base all'espressione di due antigeni sulla membrana cellulare, sono in grado di riprodurre nei topi lo stesso cancro di origine, anche quando vengono inoculate a bassissime concentrazioni. "Ne bastano mille, rispetto al milione di cellule totali necessarie altrimenti", spiega il ricercatore. Poche cellule umane per far ammalare i topolini, dunque. E all'Istituto sono riusciti non solo a isolare le staminali cattive, ma anche a sviluppare un modello in vitro che ne consente l'espansione. Queste super-cellule tumorali, che come le staminali buone si autorinnovano e generano cellule con diversi tipi di differenziazione, crescono e migrano: "non proliferano molto e tendono a essere quiescenti, lasciando alle loro cellule-figlie il compito di accrescere la massa tumorale".
Inoltre, in genere sono resistenti ai farmaci e alle radiazioni. "Averle individuate - dice Pierotti - consente di sviluppare nuove terapie per andare alla radice dell'insorgere del tumore, distruggerle ed evitare che la neoplasia si riformi".
Insomma, è il primo passo verso la messa a punto di reagenti utili per la diagnosi precoce, ma anche per terapie mirate a battere la componente staminale del tumore. Ma i ricercatori dell'Int hanno lavorato anche sulle staminali buone contro linfomi e leucemie.
Oggi il 50% delle persone con malattie onco-ematologiche viene trapiantato. Ma l'impianto di cellule staminali emopoietiche da donatore compatibile 'classico' comportava alte dosi di chemio e radio pre-trapianto, con alti rischi per i pazienti non più giovani. "Così abbiamo riadattato le dosi di farmaci pre-trapianto. E abbiamo condotto uno studio multicentrico su 150 pazienti sottoposti a trapianto da donatore familiare dal '99 al 2004", spiega Paolo Corradini dell'Int. Ebbene, sia per i pazienti giovani che per gli over 55 la percentuale di sopravvivenza è risultata identica. "Insomma, i risultati dello studio in corso di stampa sul Journal of Clinical Oncology - conclude il ricercatore - indicano che il trapianto allogenico a ridotta intensita' e' una procedura fattibile anche nei pazienti fino ad oggi esclusi dalla procedura". In futuro lo studioso pensa al trapianto di popolazioni cellulari riparatrici, e non di tutto il midollo, e anche all'uso di donatori non compatibili.
tratto da:www.tgcom.itwww.psicolife.com Psicologia e Ipnosi Terapia a Firenze
domenica, luglio 30, 2006
I cellulari eccitano il cervello
Lo studio non è in grado di stabilire però se i telefonini facciano male alla salute. «Implicazioni da approfondire» |
METODO - «È dimostrato senza alcuna ombra di dubbio - affermano i responsabili dello studio - che le emissioni elettromagnetiche dei telefoni cellulari producono effetti sull'eccitabilità del cervello di chi li usa, ed in particolare in quella parte delicata che è la corteccia cerebrale». I ricercatori italiani sono partiti da un metodo denominato paired-TMS che consente di misurare l'andamento di eccitazione o inibizione indotto da una coppia di stimoli sulla corteccia cerebrale. Sono stati studiati 15 soggetti volontari, ai quali è stato fatto indossare un elmetto che incorporava due cellulari della generazione GSM, all'altezza dell'orecchio destro e sinistro, in modo da far coincidere il punto di massima esposizione elettromagnetica con la corteccia motoria destra e sinistra, riproducendo le medesime condizioni di un utente che usa il cellulare. I risultati, affermano gli studiosi, sono stati «sorprendenti»: prima dell'accensione dei telefonini, l'eccitabilità delle due metà (emisferi) del cervello risulta identica. La differenza tra i due emisferi diventa invece significativa dopo 45 minuti di esposizione e si mantiene tale anche 60 minuti dopo la disattivazione dei cellulari.
IMPLICAZIONI - Tale dimostrazione, precisano tuttavia gli autori dello studio, non implica necessariamente la pericolosità dello strumento di telefonia mobile, ma pone l'accento sulla necessità di approfondire gli studi per verificare gli eventuali effetti dannosi su persone che già soffrono di eccitabilità della corteccia, ad esempio i malati di epilessia, o, al contrario, l'eventuale utilizzo dal punto di vista clinico per il trattamento di persone con eccitabilità del cervello particolarmente ridotta, quali ad esempio malati di Alzheimer o pazienti dopo ictus».
giovedì, luglio 27, 2006
Assistenza ai malati oncologici: ecco come deve essere
Come dovrebbe essere un'assistenza sanitaria per i malati oncologici degna di questo nome? Informata, aggiornata, rispettosa e libera. Ecco quanto sostemgono due tra le istituzioni sanitarie internazionali più importanti: il loro appello sarà raccolto?L’American Society of Clinical Oncology (ASCO) e la European Society for Medical Oncology (ESMO) hanno pubblicato un decalogo sulla qualità dell’assistenza sanitaria oncologica che vuole rappresentare una guida per le istituzioni sanitarie di tutto il mondo e un punto di riferimento per tutti i pazienti. Il decalogo è stato pubblicato sul Journal of Clinical Oncology e sugli Annals of Oncology.
“Nonostante i continui progressi nei trattamenti oncologici, sono ancora diffuse profonde ineguaglianze nell’assistenza sanitaria ai malati oncologici e gravi lacune nell’accesso a cure ottimali”, spiega Hakan Mellstedt, presidente ESMO. “Attraverso questo decalogo, alcuni addetti ai lavori hanno voluto fissare i punti essenziali della qualità dell’assistenza, essenziale per tutti i pazienti”. “Sia ASCO che ESMO concentrano tutti i loro sforzi sul miglioramento dell’assistenza sanitaria ai circa 10 milioni di pazienti ai quali viene diagnosticato un tumore ogni anno”, spiega Sandra J. Horning, presidente ASCO. “Questa collaborazione è il risultato diretto del nostro comune obiettivo di fornire alla comunità globale una serie di criteri in grado di migliorare la qualità dell’assistenza oncologica”.
Il decalogo ASCO/ESMO enumera i seguenti 10 punti-cardine per definire ‘di qualità’ un’assistenza sanitaria oncologica:
Accesso all'informazione: i pazienti devono ricevere informazioni adeguate sulla loro patologia, compresi i possibili interventi, e rischi e benefici delle varie opzioni di trattamento.
Privacy, riservatezza e dignità: i pazienti devono beneficiare della privacy su diagnosi e trattamenti a loro forniti ed essere trattati con dignità sempre e comunque. Accesso alla
documentazione clinica: ai pazienti dovrebbe essere concesso di esaminare i risultati degli esami medici e la cartella clinica e averne copia tempestivamente.
Servizi di prevenzione: i pazienti devono avere accesso alle informazioni che riguardano la prevenzione del cancro e gli interventi preventivi basati su prove di efficacia. Non
discriminazione: l'accesso ai servizi sanitari deve essere garantito senza discriminazioni di razza, religione, sesso, nazionalità o disabilità.
Consenso al trattamento e scelta: i pazienti devono essere informati e messi in grado di partecipare alle decisioni che riguardano i trattamenti.
Assistenza oncologica multidisciplinare: il trattamento oncologico deve essere fornito da un'équipe di medici, chirurghi, radiologi oncologici, specialisti di cure palliative, infermieri e assistenti sociali, psicologi e psicoterapeuti.
Assistenza oncologica innovativa: i pazienti devono avere l'opportunità di partecipare ai trial clinici più importanti e avere accesso alle terapie più innovative.
Pianificazione dell’assistenza alla sopravvivenza: i pazienti sopravvissuti ad un tumore devono essere inquadrati in un piano di follow-up negli anni successivi alla guarigione.
Gestione del dolore, cure palliative e di supporto: i pazienti devono avere accesso alle terapie del dolore anche con analgesici oppioidi e a tutte le opzioni terapeutiche di supporto in assoluta libertà di scelta (ipnositerapia, Visualizzazioni, training Autogeno, ecc...).
Bibliografia. ASCO – ESMO press release 2006.
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lunedì, luglio 24, 2006
TUMORI: MELANOMA, SIENA SPERIMENTA ANTICORPO TERAPEUTICO
''L'anticorpo monoclonale utilizzato a Siena - come spiega il dottor Maio - e' in grado di bloccare l'attivita' funzionale di una popolazione specifica di linfociti che fisiologicamente regola, reprimendola, la risposta del sistema immunitario. Cioe' e' come togliere il freno a una parte del sistema immunitario potenziando la sua risposta al tumore. Questo perche' - aggiunge Maio - quando il sistema immunitario deve difendersi da un agente esterno puo' farlo producendo anticorpi o linfociti; quando poi l'agente esterno e' stato eliminato intervengono meccanismi di controllo che 'frenano' la risposta immunitaria''. Parallelamente a questa sperimentazione, a Siena si portera' avanti anche un altro studio, unico in Italia, per verificare gli effetti a lungo termine sul sistema immunitario privato dell'azione 'bloccante' dei linfociti. '
'In questo modo - spiega ancora Maio - oltre alla valutazione dell'efficacia clinica del trattamento, potremo comprendere contestualmente gli effetti biologici e capire le modalita' piu' adeguate di impiego clinico''.
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mercoledì, luglio 19, 2006
Leucemia, arrivano nuovi farmaci «intelligenti»
MILANO – Anche i malati che diventano resistenti all’imatinib (meglio noto come Glivec), il farmaco che ha modificato radicalmente il destino delle persone colpite dalla leucemia mieloide cronica e dal tumore gastrointestinale stromale, possono sperare in una terapia efficace, basata su due molecole chiamate dasatinib e nilotinib, che hanno lo stesso meccanismo d’azione del progenitore, ma che presentano alcuni vantaggi significativi e sembrano in grado di superare la resistenza insorta. I due farmaci sono stati oggetto di importanti sperimentazioni, che hanno convinto la Food and Drug Administration (FDA, l’equivalente americano del nostro Ministero della Salute) ad attivare una procedura di approvazione accelerata, in particolare, per il dasatinib: questo farmaco verrà dunque utilizzato negli Stati Uniti per curare la leucemia mieloide cronica e quella linfoblastica acuta, nei pazienti diventati resistenti al Glivec. Per il nilotinib la Food and Drug Administration e l’omologa agenzia europea (l’EMEA) dovrebbero esprimersi tra la fine di quest’anno e l’inizio del 2007. Intanto, sia il nilotinib che il dasatinib sono stati inclusi nelle liste dei “farmaci orfani” dell’FDA statunitense e dell’EMEA europea, cioè tra i medicinali per il trattamento di patologie gravi e rare, che possono giovarsi di una procedura di approvazione centralizzata e più rapida, e di incentivi per facilitarne l’introduzione nel mercato.
L’Italia è all’avanguardia in queste ricerche, grazie anche al lavoro svolto dal Gruppo di studio sulla leucemia mieloide cronica presieduto da Michele Baccarani, direttore dell’Unità operativa di ematologia dell’Ospedale Sant’Orsola Malpighi di Bologna. Questo ha fatto sì che il nostro sia stato uno dei primi Paesi ad adottare rapidamente, nella pratica clinica quotidiana, il Glivec. «Oggi - aggiunge Mandelli - i malati possono beneficiare di questo farmaco, che ha sostituito quasi del tutto le terapie precedenti basate su interferone e trapianto. Le vecchie cure non davano grandi risultati; al contrario il Glivec, da subito rimborsato dal Servizio sanitario nazionale, assicura tassi di remissione del tumore attorno al 90 per cento e percentuali simili per la sopravvivenza a cinque anni: il tutto con effetti collaterali assai ridotti, rispetto alla chemioterapia tradizionale».
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domenica, luglio 16, 2006
L'ansia? Può salvarci dal tumore del retto
Una dose accettabile di ansia può essere una buona cosa se viene applicata alla ricerca di eventuali sintomi di tumori: lo sostengono i ricercatori della Washington University School of Medicine di St. Louis in un articolo pubblicato dalla rivista Psycho-Oncology. Uno studio dimostra che le persone con un basso livello di ansia tendono a ignorare sintomi di tumore al retto per lunghi periodi di tempo, ritardandone il trattamento. Viceversa, persone con almeno un moderato livello di ansie tendono a riconoscere velocemente sintomi come il sanguinamento rettale e a collegarli ad una patologia grave.
“Praticamente tutti abbiamo sentito storie di pazienti che avevano sintomi di tumori ma hanno aspettato a lungo prima di cercare aiuto medico. Mi incuriosisce molto la psicologia di questo comportamento”, spiega Stephen Ristvedt, psichiatra. “La maggior parte delle persone motiva questa scelta con la paura o con la riluttanza a sentire la parola ‘cancro’ dal proprio medico, ma non capisco perché al tempo stesso tali persone siano generalmente ottimiste e non preoccupate come dovrebbero dai loro rinvii”.
Lo studio ha esaminato 69 pazienti con diagnosi di tumore al retto in cura presso il reparto di Colon and Rectal Surgery della Washington University School of Medicine. Ai pazienti è stato chiesto di indicare quanto tempo è passato dai primi sintomi alla consapevolezza che potesse trattarsi di qualcosa di grave e quanto tempo è passato dalla comparsa delle loro paure alla decisione di rivolgersi ad un medico. In più, ogni paziente è stato sottoposto ad un test psicologico per misurare il suo livello di ansia.
L’analisi dei dati ha mostrato che il 71 per cento non ha attribuito il sanguinamento rettale ad un tumore, ma ad emorroidi, dieta, danni fisici, stress o ulcere. Tra tutti i pazienti, il periodo di tempo intercorso tra la comparsa dei sintomi e la paura va da un minimo di pochi giorni a due anni.
I periodi di attesa più alti sono stati riscontrati nei pazienti con livelli di ansia più bassi (30 settimane di media), mentre gli ansiosi hanno una media della metà. “Gli ottimisti ad oltranza tendono a considerare la loro salute più buona di quello che è, anche se sono gravemente malati”. Il tempo necessario per rivolgersi ad un medico è stato invece in media breve in tutti i pazienti, in media una settimana.
Insomma, in alcuni casi non tutta l’ansia viene per nuocere.
Fonte: Washington University School Medicine, 2005.
mercoledì, luglio 12, 2006
Ipertensione da camice bianco tutta colpa dell'alessitimia
La ricerca.
Medici e psicologi dell'ospedale Fatebenefratelli dell'Isola Tiberina di Roma, hanno cercato di capire quali sono le cause di questo disturbo e quali le caratteristiche dei pazienti. I risultati della ricerca, condotta su 150 soggetti (ipertesi e normotesi) d'età compresa tra 30 e 60 anni, nata in collaborazione tra l'Unità Operativa di Psicologia Clinica e il Centro per la Ipertensione Arteriosa, verranno illustrati nel prossimo Congresso Nazionale dell'AFaR - Associazione Fatebenefratelli per la Ricerca Biomedica e Sanitaria - che si svolgerà a Benevento dal 22 al 24 settembre prossimo, organizzato dall'ospedale "Sacro Cuore di Gesù".
L'alessitimia.
Dalla ricerca emerge che l'ipertensione è in relazione a un disturbo della regolazione psicologica delle emozioni, l'alessitimia: un deficit della capacità di elaborare le emozioni da un punto di vista cognitivo, una difficoltà a esprimerle, a creare un legame con l'altro stabilendo un rapporto di fiducia. Ipertensione e psiche. I soggetti ipertesi risultano più alessitimici dei non ipertesi: insicuri, lamentano in genere sintomi somatici (più che problemi psicologici o relazionali), possono avere esplosioni di collera o di pianto senza saperne il motivo e mostrano ridotta capacità empatica perché, non riuscendo a usare come segnale le proprie emozioni, non possono utilizzare quelle degli altri. Chi, invece, risulta avere una normotensione da camice bianco (o ipertensione mascherata) dimostra un attaccamento insicuro ma ambivalente: preoccupati del "troppo vicino o troppo lontano" hanno bisogno di stabilire un rapporto ma ne hanno al contempo paura.
L'età.
La ricerca mette poi in rilievo il fattore età: il fenomeno dell'ipertensione da camice bianco aumenta con gli anni, nonostante le persone anziane siano consapevoli della propria malattia e seguano da tempo una terapia. L'anziano è più fragile, più dipendente dal medico che attraverso il sintomo raccoglie le emozioni non dette. Ogni misurazione della pressione diventa, quindi, un test che valuta il proprio stato di salute.
Consigli.
"Nel corso della visita e della misurazione della pressione - spiega il professor Dario Manfellotto, responsabile del Centro per la Ipertensione del Fatebenefratelli - bisogna capire e interpretare i pensieri del paziente, studiare le sue reazioni, parlargli della malattia, sentire le sue opinioni. E', inoltre, importante fare sempre un confronto fra i dati della pressione misurati dal medico, quelli automisurati, e quelli rilevati con la registrazione nel corso di 24 ore, per verificare se esistono differenze significative".
Il congresso. Nel corso del congresso dell'AFaR, che vedrà impegnati più di 300 ricercatori provenienti da tutta Europa, verranno presentati anche studi scientifici in diversi ambiti: oncologia, riabilitazione, chirurgia tradizionale e mininvasiva, biologia molecolare, malattie mentali. In particolare una ricerca sugli aspetti etici della terapia del dolore e uno studio sul "termometro del distress", uno strumento per valutare il disagio del malato oncologico.
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giovedì, luglio 06, 2006
IPNOSI EFFICACE NELL'ALLEVIARE I DOLORI DA CANCRO
L'ipnosi può alleviare la sofferenza e migliorare la qualità della vita dei pazienti colpiti dal cancro. A sostenerlo è Christina Liossi, dell' University of Wales di Swansea, nel Galles.
L'ipnosi è stata già sperimentata per aiutare a smettere di fumare, a perdere peso e superare le fobie e, secondo alcuni studiosi il potenziale terapeutico reale di tale pratica rimane ancora non sfruttato.
Secondo la Liossi, c'è la prova medica che l'ipnosi contribuisce ad alleviare la depressione, la nausea, il vomito ed il dolore sofferti dai pazienti colpiti dal cancro.
C'è, inoltre, la possibilità che l'ipnosi possa aumentare la sopravvivenza dei pazienti colpiti, ma le prove per sostenerlo non sono ancora sufficienti.
La Liossi ricorda come sia noto che l'ipnosi può influenzare il sistema immunitario. Una novità emersa durante la conferenza annuale della British Association for for the Advancement of Science. Negli studi sui bambini che soffrono di cancro, la Liossi ha osservato che dei giovani sottoposti ad ipnosi, e ai quali sia stato somministrato un anestetico locale, percepiscono meno dolore durante l'intervento medico rispetto a coloro che non sono stati ipnotizzati.
Il professor John Gruzelier, dell'Imperial College di Londra, che ha usato la tecnica cosiddetta del “brain-imaging” per visualizzare l'attività del cervello, ritiene che i cambiamenti che interessano il cervello sotto ipnosi potrebbero contribuire a spiegare alcuni dei meccanismi secondo cui essa funziona e spiegare come mai chi è sotto all'ipnosi obbedisca a quanto chiesto. In ogni caso, pur non essendoci ancora prove definitive su come funzioni, l'ipnosi è uno strumento terapeutico magnifico.
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