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domenica, luglio 30, 2006

I cellulari eccitano il cervello

tratto da: www.corriere.it

Lo studio non è in grado di stabilire però se i telefonini facciano male alla salute. «Implicazioni da approfondire»


ROMA - Non è ancora chiaro se facciano male alla salute oppure no. Quello che è certo, almeno secondo uno studio italiano che sarà pubblicato sulla rivista scientifica 'Annals of Neurology', è che i telefoni cellulari «eccitano» il nostro cervello. Lo afferma una ricerca condotta congiuntamente dai ricercatori dell'IRCCS Fatebenefratelli di Brescia e, a Roma, dall'Ospedale S.Giovanni Calibita-Fatebenefratelli, dalla Facoltà di Psicologia della Sapienza e dalla Clinica Neurologica all'Università Campus Bio-Medico.

METODO - «È dimostrato senza alcuna ombra di dubbio - affermano i responsabili dello studio - che le emissioni elettromagnetiche dei telefoni cellulari producono effetti sull'eccitabilità del cervello di chi li usa, ed in particolare in quella parte delicata che è la corteccia cerebrale». I ricercatori italiani sono partiti da un metodo denominato paired-TMS che consente di misurare l'andamento di eccitazione o inibizione indotto da una coppia di stimoli sulla corteccia cerebrale. Sono stati studiati 15 soggetti volontari, ai quali è stato fatto indossare un elmetto che incorporava due cellulari della generazione GSM, all'altezza dell'orecchio destro e sinistro, in modo da far coincidere il punto di massima esposizione elettromagnetica con la corteccia motoria destra e sinistra, riproducendo le medesime condizioni di un utente che usa il cellulare. I risultati, affermano gli studiosi, sono stati «sorprendenti»: prima dell'accensione dei telefonini, l'eccitabilità delle due metà (emisferi) del cervello risulta identica. La differenza tra i due emisferi diventa invece significativa dopo 45 minuti di esposizione e si mantiene tale anche 60 minuti dopo la disattivazione dei cellulari.

IMPLICAZIONI - Tale dimostrazione, precisano tuttavia gli autori dello studio, non implica necessariamente la pericolosità dello strumento di telefonia mobile, ma pone l'accento sulla necessità di approfondire gli studi per verificare gli eventuali effetti dannosi su persone che già soffrono di eccitabilità della corteccia, ad esempio i malati di epilessia, o, al contrario, l'eventuale utilizzo dal punto di vista clinico per il trattamento di persone con eccitabilità del cervello particolarmente ridotta, quali ad esempio malati di Alzheimer o pazienti dopo ictus».


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giovedì, luglio 27, 2006

Assistenza ai malati oncologici: ecco come deve essere

A cura de Il Pensiero Scientifico Editore

Come dovrebbe essere un'assistenza sanitaria per i malati oncologici degna di questo nome? Informata, aggiornata, rispettosa e libera. Ecco quanto sostemgono due tra le istituzioni sanitarie internazionali più importanti: il loro appello sarà raccolto?L’American Society of Clinical Oncology (ASCO) e la European Society for Medical Oncology (ESMO) hanno pubblicato un decalogo sulla qualità dell’assistenza sanitaria oncologica che vuole rappresentare una guida per le istituzioni sanitarie di tutto il mondo e un punto di riferimento per tutti i pazienti. Il decalogo è stato pubblicato sul Journal of Clinical Oncology e sugli Annals of Oncology.

“Nonostante i continui progressi nei trattamenti oncologici, sono ancora diffuse profonde ineguaglianze nell’assistenza sanitaria ai malati oncologici e gravi lacune nell’accesso a cure ottimali”, spiega Hakan Mellstedt, presidente ESMO. “Attraverso questo decalogo, alcuni addetti ai lavori hanno voluto fissare i punti essenziali della qualità dell’assistenza, essenziale per tutti i pazienti”. “Sia ASCO che ESMO concentrano tutti i loro sforzi sul miglioramento dell’assistenza sanitaria ai circa 10 milioni di pazienti ai quali viene diagnosticato un tumore ogni anno”, spiega Sandra J. Horning, presidente ASCO. “Questa collaborazione è il risultato diretto del nostro comune obiettivo di fornire alla comunità globale una serie di criteri in grado di migliorare la qualità dell’assistenza oncologica”.

Il decalogo ASCO/ESMO enumera i seguenti 10 punti-cardine per definire ‘di qualità’ un’assistenza sanitaria oncologica:

Accesso all'informazione:
i pazienti devono ricevere informazioni adeguate sulla loro patologia, compresi i possibili interventi, e rischi e benefici delle varie opzioni di trattamento.

Privacy, riservatezza e dignità: i pazienti devono beneficiare della privacy su diagnosi e trattamenti a loro forniti ed essere trattati con dignità sempre e comunque. Accesso alla

documentazione clinica: ai pazienti dovrebbe essere concesso di esaminare i risultati degli esami medici e la cartella clinica e averne copia tempestivamente.

Servizi di prevenzione: i pazienti devono avere accesso alle informazioni che riguardano la prevenzione del cancro e gli interventi preventivi basati su prove di efficacia. Non

discriminazione: l'accesso ai servizi sanitari deve essere garantito senza discriminazioni di razza, religione, sesso, nazionalità o disabilità.

Consenso al trattamento e scelta: i pazienti devono essere informati e messi in grado di partecipare alle decisioni che riguardano i trattamenti.

Assistenza oncologica multidisciplinare: il trattamento oncologico deve essere fornito da un'équipe di medici, chirurghi, radiologi oncologici, specialisti di cure palliative, infermieri e assistenti sociali, psicologi e psicoterapeuti.

Assistenza oncologica innovativa: i pazienti devono avere l'opportunità di partecipare ai trial clinici più importanti e avere accesso alle terapie più innovative.

Pianificazione dell’assistenza alla sopravvivenza: i pazienti sopravvissuti ad un tumore devono essere inquadrati in un piano di follow-up negli anni successivi alla guarigione.

Gestione del dolore, cure palliative e di supporto: i pazienti devono avere accesso alle terapie del dolore anche con analgesici oppioidi e a tutte le opzioni terapeutiche di supporto in assoluta libertà di scelta (ipnositerapia, Visualizzazioni, training Autogeno, ecc...).

Bibliografia. ASCO – ESMO press release 2006.

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lunedì, luglio 24, 2006

TUMORI: MELANOMA, SIENA SPERIMENTA ANTICORPO TERAPEUTICO

(ANSA) - SIENA, 21 LUG - Un nuovo anticorpo monoclonale terapeutico per la cura del melanoma viene sperimentato per la prima volta in Europa al Policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena. La sperimentazione viene condotta dall' equipe del dottor Michele Maio, direttore dell'U.O.C. Immunoterapia Oncologica del policlinico senese, e coinvolge altri cinque centri in Italia, tutti coordinati da Siena, e altre trenta strutture internazionali fra Stati Uniti, Europa e Australia. Nel complesso sono 160 le persone che nel mondo si sottoporanno al trattamento, le prima due in Europa lo stanno gia' facendo da alcuni giorni a Siena.

''L'anticorpo monoclonale utilizzato a Siena - come spiega il dottor Maio - e' in grado di bloccare l'attivita' funzionale di una popolazione specifica di linfociti che fisiologicamente regola, reprimendola, la risposta del sistema immunitario. Cioe' e' come togliere il freno a una parte del sistema immunitario potenziando la sua risposta al tumore. Questo perche' - aggiunge Maio - quando il sistema immunitario deve difendersi da un agente esterno puo' farlo producendo anticorpi o linfociti; quando poi l'agente esterno e' stato eliminato intervengono meccanismi di controllo che 'frenano' la risposta immunitaria''. Parallelamente a questa sperimentazione, a Siena si portera' avanti anche un altro studio, unico in Italia, per verificare gli effetti a lungo termine sul sistema immunitario privato dell'azione 'bloccante' dei linfociti. '

'In questo modo - spiega ancora Maio - oltre alla valutazione dell'efficacia clinica del trattamento, potremo comprendere contestualmente gli effetti biologici e capire le modalita' piu' adeguate di impiego clinico''.


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mercoledì, luglio 19, 2006

Leucemia, arrivano nuovi farmaci «intelligenti»


MILANO
– Anche i malati che diventano resistenti all’imatinib (meglio noto come Glivec), il farmaco che ha modificato radicalmente il destino delle persone colpite dalla leucemia mieloide cronica e dal tumore gastrointestinale stromale, possono sperare in una terapia efficace, basata su due molecole chiamate dasatinib e nilotinib, che hanno lo stesso meccanismo d’azione del progenitore, ma che presentano alcuni vantaggi significativi e sembrano in grado di superare la resistenza insorta. I due farmaci sono stati oggetto di importanti sperimentazioni, che hanno convinto la Food and Drug Administration (FDA, l’equivalente americano del nostro Ministero della Salute) ad attivare una procedura di approvazione accelerata, in particolare, per il dasatinib: questo farmaco verrà dunque utilizzato negli Stati Uniti per curare la leucemia mieloide cronica e quella linfoblastica acuta, nei pazienti diventati resistenti al Glivec. Per il nilotinib la Food and Drug Administration e l’omologa agenzia europea (l’EMEA) dovrebbero esprimersi tra la fine di quest’anno e l’inizio del 2007. Intanto, sia il nilotinib che il dasatinib sono stati inclusi nelle liste dei “farmaci orfani” dell’FDA statunitense e dell’EMEA europea, cioè tra i medicinali per il trattamento di patologie gravi e rare, che possono giovarsi di una procedura di approvazione centralizzata e più rapida, e di incentivi per facilitarne l’introduzione nel mercato.

LE SPERIMENTAZIONI - I due studi di cui parlavamo sono stati condotti da un team di ematologi dell’MD Anderson Cancer Center di Houston (Stati Uniti), e i risultati sono stati di recente pubblicati sul New England Journal of Medicine. Nel primo il dasatinib è stato sperimentato in 40 pazienti la cui malattia era diventata cronica e in 44 pazienti con una leucemia in proliferazione attiva, ottenendo una risposta ematologica completa o sostanziale nella gran parte dei casi; il farmaco è stato inoltre in grado di agire anche sulle alterazioni genetiche alla base della malattia in una buona percentuale di malati. Nel secondo studio, oggetto della sperimentazione è stato il nilotinib. Un centinaio di malati con una leucemia resistente al Glivec oppure linfoblastica acuta hanno ricevuto diversi dosaggi del farmaco, al fine di verificare l’esistenza eventuale di una tossicità e di stabilire quale fosse il protocollo migliore. Anche in questo caso la nuova molecola si è rivelata attiva tanto nei malati con leucemia cronica quanto in quelli in crisi blastica, agendo sui parametri del sangue e sulle alterazioni genetiche. In entrambe le sperimentazioni gli effetti collaterali più comuni sono stati a carico del midollo e del fegato, oltre ad alcune eruzioni cutanee.

COME FUNZIONANO - Glivec, dasatinib e nilotinib agiscono su un enzima che svolge un ruolo fondamentale per la vita della cellula cancerosa: la tirosin chinasi BCR-ABL, che aggiunge fosforo ad alcune proteine, e così facendo innesca processi indispensabili alla proliferazione del tumore. Il glivec si aggancia allla tirosin chinasi, bloccandone l’attività, ma la cellula cancerosa riesce talvolta a modificare il punto in cui avviene questo legame, diventando così resistente e sfuggendo all’azione terapeutica. Il nilotinib forma un legame molto più forte con l’enzima, e risente meno delle modifiche indotte dalle cellule cancerose. Nel dasatinib, invece, le cose vanno un po’ diversamente, anche perché il farmaco era stato in origine progettato per bloccare un’altra tirosin chinasi, detta SRC. Testato sulla BRC-ABL, si è dimostrato molto attivo e i test preliminari hanno spinto l’azienda farmaceutica che lo produce a provarlo sui malati.

GLIVEC IN PENSIONE? NIENTE AFFATTO - Siamo quindi in presenza di molecole che potrebbero presto sostituire il Glivec? Sportello Cancro lo ha chiesto a Franco Mandelli, ematologo dell’Università La Sapienza di Roma e presidente dell’Associazione italiana contro le leucemie, grande esperto di Glivec, che spiega: «Di sicuro si aprono buone prospettive di cura per tutti coloro che non possono più beneficiare del Glivec, e cioè circa il 16 per cento dei malati con malattia cronica trattati con l’imatinib, che hanno una ricaduta entro cinque anni. Ciò però non significa che sia già giunta l’ora di mandare in pensione il Glivec: occorreranno ancora molti studi, confronti, tentativi, prima di potersi esprimere, ed è probabile che alla fine tutte e tre queste molecole resteranno a disposizione dei malati, ciascuna da utilizzare a seconda della situazione specifica o quando un’altra ha fallito. Ora - commenta ancora Mandelli - bisognerà capire se, come sembra, le nuove molecole sono in grado di assicurare una guarigione completa, cosa che il Glivec non sempre riesce a fare, obbligando il malato a una terapia che teoricamente dura tutta la vita».

L’Italia è all’avanguardia in queste ricerche, grazie anche al lavoro svolto dal Gruppo di studio sulla leucemia mieloide cronica presieduto da Michele Baccarani, direttore dell’Unità operativa di ematologia dell’Ospedale Sant’Orsola Malpighi di Bologna. Questo ha fatto sì che il nostro sia stato uno dei primi Paesi ad adottare rapidamente, nella pratica clinica quotidiana, il Glivec. «Oggi - aggiunge Mandelli - i malati possono beneficiare di questo farmaco, che ha sostituito quasi del tutto le terapie precedenti basate su interferone e trapianto. Le vecchie cure non davano grandi risultati; al contrario il Glivec, da subito rimborsato dal Servizio sanitario nazionale, assicura tassi di remissione del tumore attorno al 90 per cento e percentuali simili per la sopravvivenza a cinque anni: il tutto con effetti collaterali assai ridotti, rispetto alla chemioterapia tradizionale».


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domenica, luglio 16, 2006

L'ansia? Può salvarci dal tumore del retto

Una dose accettabile di ansia può essere una buona cosa se viene applicata alla ricerca di eventuali sintomi di tumori: lo sostengono i ricercatori della Washington University School of Medicine di St. Louis in un articolo pubblicato dalla rivista Psycho-Oncology. Uno studio dimostra che le persone con un basso livello di ansia tendono a ignorare sintomi di tumore al retto per lunghi periodi di tempo, ritardandone il trattamento. Viceversa, persone con almeno un moderato livello di ansie tendono a riconoscere velocemente sintomi come il sanguinamento rettale e a collegarli ad una patologia grave.

“Praticamente tutti abbiamo sentito storie di pazienti che avevano sintomi di tumori ma hanno aspettato a lungo prima di cercare aiuto medico. Mi incuriosisce molto la psicologia di questo comportamento”, spiega Stephen Ristvedt, psichiatra. “La maggior parte delle persone motiva questa scelta con la paura o con la riluttanza a sentire la parola ‘cancro’ dal proprio medico, ma non capisco perché al tempo stesso tali persone siano generalmente ottimiste e non preoccupate come dovrebbero dai loro rinvii”.

Lo studio ha esaminato 69 pazienti con diagnosi di tumore al retto in cura presso il reparto di Colon and Rectal Surgery della Washington University School of Medicine. Ai pazienti è stato chiesto di indicare quanto tempo è passato dai primi sintomi alla consapevolezza che potesse trattarsi di qualcosa di grave e quanto tempo è passato dalla comparsa delle loro paure alla decisione di rivolgersi ad un medico. In più, ogni paziente è stato sottoposto ad un test psicologico per misurare il suo livello di ansia.

L’analisi dei dati ha mostrato che il 71 per cento non ha attribuito il sanguinamento rettale ad un tumore, ma ad emorroidi, dieta, danni fisici, stress o ulcere. Tra tutti i pazienti, il periodo di tempo intercorso tra la comparsa dei sintomi e la paura va da un minimo di pochi giorni a due anni.

I periodi di attesa più alti sono stati riscontrati nei pazienti con livelli di ansia più bassi (30 settimane di media), mentre gli ansiosi hanno una media della metà. “Gli ottimisti ad oltranza tendono a considerare la loro salute più buona di quello che è, anche se sono gravemente malati”. Il tempo necessario per rivolgersi ad un medico è stato invece in media breve in tutti i pazienti, in media una settimana.

Insomma, in alcuni casi non tutta l’ansia viene per nuocere.

Fonte: Washington University School Medicine, 2005.

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mercoledì, luglio 12, 2006

Ipertensione da camice bianco tutta colpa dell'alessitimia

ROMA - I valori della vostra pressione sono diversi quando li misurate dal medico rispetto a quando mettete mano alla macchinetta in casa? E' il fenomeno della cosiddetta ipertensione da camice bianco. Ma può anche accadere l'esatto contrario. La pressione, normale nello studio del medico, è più alta quando la misurate a casa o nella registrazione delle 24 ore: in questo caso si parla di normotensione da camice bianco o ipertensione mascherata.

La ricerca.
Medici e psicologi dell'ospedale Fatebenefratelli dell'Isola Tiberina di Roma, hanno cercato di capire quali sono le cause di questo disturbo e quali le caratteristiche dei pazienti. I risultati della ricerca, condotta su 150 soggetti (ipertesi e normotesi) d'età compresa tra 30 e 60 anni, nata in collaborazione tra l'Unità Operativa di Psicologia Clinica e il Centro per la Ipertensione Arteriosa, verranno illustrati nel prossimo Congresso Nazionale dell'AFaR - Associazione Fatebenefratelli per la Ricerca Biomedica e Sanitaria - che si svolgerà a Benevento dal 22 al 24 settembre prossimo, organizzato dall'ospedale "Sacro Cuore di Gesù".

L'alessitimia.
Dalla ricerca emerge che l'ipertensione è in relazione a un disturbo della regolazione psicologica delle emozioni, l'alessitimia: un deficit della capacità di elaborare le emozioni da un punto di vista cognitivo, una difficoltà a esprimerle, a creare un legame con l'altro stabilendo un rapporto di fiducia. Ipertensione e psiche. I soggetti ipertesi risultano più alessitimici dei non ipertesi: insicuri, lamentano in genere sintomi somatici (più che problemi psicologici o relazionali), possono avere esplosioni di collera o di pianto senza saperne il motivo e mostrano ridotta capacità empatica perché, non riuscendo a usare come segnale le proprie emozioni, non possono utilizzare quelle degli altri. Chi, invece, risulta avere una normotensione da camice bianco (o ipertensione mascherata) dimostra un attaccamento insicuro ma ambivalente: preoccupati del "troppo vicino o troppo lontano" hanno bisogno di stabilire un rapporto ma ne hanno al contempo paura.

L'età.
La ricerca mette poi in rilievo il fattore età: il fenomeno dell'ipertensione da camice bianco aumenta con gli anni, nonostante le persone anziane siano consapevoli della propria malattia e seguano da tempo una terapia. L'anziano è più fragile, più dipendente dal medico che attraverso il sintomo raccoglie le emozioni non dette. Ogni misurazione della pressione diventa, quindi, un test che valuta il proprio stato di salute.

Consigli.
"Nel corso della visita e della misurazione della pressione - spiega il professor Dario Manfellotto, responsabile del Centro per la Ipertensione del Fatebenefratelli - bisogna capire e interpretare i pensieri del paziente, studiare le sue reazioni, parlargli della malattia, sentire le sue opinioni. E', inoltre, importante fare sempre un confronto fra i dati della pressione misurati dal medico, quelli automisurati, e quelli rilevati con la registrazione nel corso di 24 ore, per verificare se esistono differenze significative".

Il congresso. Nel corso del congresso dell'AFaR, che vedrà impegnati più di 300 ricercatori provenienti da tutta Europa, verranno presentati anche studi scientifici in diversi ambiti: oncologia, riabilitazione, chirurgia tradizionale e mininvasiva, biologia molecolare, malattie mentali. In particolare una ricerca sugli aspetti etici della terapia del dolore e uno studio sul "termometro del distress", uno strumento per valutare il disagio del malato oncologico.

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giovedì, luglio 06, 2006

IPNOSI EFFICACE NELL'ALLEVIARE I DOLORI DA CANCRO

IPNOSI EFFICACE NELL'ALLEVIARE I DOLORI DA CANCRO

L'ipnosi può alleviare la sofferenza e migliorare la qualità della vita dei pazienti colpiti dal cancro. A sostenerlo è Christina Liossi, dell' University of Wales di Swansea, nel Galles.
L'ipnosi è stata già sperimentata per aiutare a smettere di fumare, a perdere peso e superare le fobie e, secondo alcuni studiosi il potenziale terapeutico reale di tale pratica rimane ancora non sfruttato.
Secondo la Liossi, c'è la prova medica che l'ipnosi contribuisce ad alleviare la depressione, la nausea, il vomito ed il dolore sofferti dai pazienti colpiti dal cancro.

C'è, inoltre, la possibilità che l'ipnosi possa aumentare la sopravvivenza dei pazienti colpiti, ma le prove per sostenerlo non sono ancora sufficienti.
La Liossi ricorda come sia noto che l'ipnosi può influenzare il sistema immunitario. Una novità emersa durante la conferenza annuale della British Association for for the Advancement of Science. Negli studi sui bambini che soffrono di cancro, la Liossi ha osservato che dei giovani sottoposti ad ipnosi, e ai quali sia stato somministrato un anestetico locale, percepiscono meno dolore durante l'intervento medico rispetto a coloro che non sono stati ipnotizzati.

Il professor John Gruzelier, dell'Imperial College di Londra, che ha usato la tecnica cosiddetta del “brain-imaging” per visualizzare l'attività del cervello, ritiene che i cambiamenti che interessano il cervello sotto ipnosi potrebbero contribuire a spiegare alcuni dei meccanismi secondo cui essa funziona e spiegare come mai chi è sotto all'ipnosi obbedisca a quanto chiesto. In ogni caso, pur non essendoci ancora prove definitive su come funzioni, l'ipnosi è uno strumento terapeutico magnifico.

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lunedì, luglio 03, 2006

L'anticancro "a tenaglia"

Dalle ricerche sulle leucemie di Pandolfi due farmaci contro i tumori di prostata, seno, colon e polmone

AMSTERDAMUna cura "a tenaglia" potrebbe fermare i quattro big killer, i tumori di polmone, prostata, colon e seno. Sulla prostata, prima nelle cavie e poi nell'uomo, sta dando ottimi risultati tanto che sono già in preparazione le sperimentazioni per gli altri tre tumori negli animali. Le "punte" della "tenaglia" sono due farmaci noti e in commercio da tempo con altre indicazioni terapeutiche. Ma si è scoperto che agiscono anche sull' "acceleratore" e sul "freno" della riproduzione, i geni con cui la cellula regola la velocità della sua moltiplicazione e il cui mal funzionamento porta inevitabilmente al cancro.

Il risultato è stato illustrato da Pier Paolo Pandolfi, direttore della ricerca di base del Memorial Sloan Kettering Institute di New York (dove si sta ultimando la costruzione di un nuovo grattacielo di ricerca e cura del cancro da 100 milioni di dollari) a margine del Congresso europeo di ematologia ad Amsterdam."Il farmaco che contrasta l'acceleratore", ha spiegato Pandolfi, "è la rapamicina, usato da anni nei trapianti per opporsi alla reazione di rigetto. Il farmaco che invece spinge direttamente sul freno naturale della moltiplicazione della cellula è l'interferone, nei suoi vari tipi. La decisione di sperimentarli accoppiati sul tumore della prostata, prima nei topi e poi nell'uomo, però non è stata casuale. Nasce dalla ricostruzione, ingranaggio dopo ingranaggio, in quindici anni di ricerca, del complesso meccanismo genetico con cui la cellula tiene sotto controllo la sua capacità di riproduzione e che, se rimane senza freni genera appunto il cancro. È dalla recente scoperta che il "gene-freno", PML, si trova alterato non solo in una rara forma di leucemia, la promielocitica acuta, dove fu individuato nel 1991, ma anche in un'altissima percentuale di casi (per la prostata è alterato nel 70 per cento dei malati) nei quattro big killer.Responsabilità allargate a questi tumori molto diffusi sono state trovate anche per il complesso dei geni acceleratori (tra cui il gene AKT).

E così, mettendo insieme le nuove conoscenze con quelle vecchie sui meccanismi d'azione dei due farmaci si è arrivati a decidere la prova sul tumore della prostata.La sperimentazione della tenaglia interferone-rapamicina avrà un filone italiano. Anche l'Istituto Tumori di Roma si appresta a varare un protocollo di ricerca che avrà per oggetto, probabilmente, il tumore al seno.Ancora lontane invece - ma meno di quanto lo sembravano quando fu scoperto il gene PML - le prospettive terapeutiche di un altro gene di cui si è molto parlato al congresso di Amsterdam. Si tratta di NPM scoperto da Brunangelo Falini, ematologo dell'Università di Perugia."Anche questo gene", ha spiegato Falini invitato ad Amsterdam per illustrare le sue scoperte, "si è visto per la prima volta in una forma di leucemia grave e ora si stanno individuando sue responsabilità molto più ampie e complesse. Le ricerche stanno delineando per NPM una ruolo di "guardiano" del Dna, nel senso che il suo corretto funzionamento impedisce ai geni di alterarsi e innescare il cancro".

Trovare un farmaco che ripristini il corretto funzionamento del gene NPM avrebbe quindi delle enormi conseguenze nella cura del cancro in genere, male che inizia a spaventare anche dal punto di vista economico. "A differenza dei vecchi farmaci su cui sta lavorando Pandolfi, i nuovi, i cosiddetti "intelligenti", prodotti dalla biotecnologia", ha concluso Falini, "hanno dei costi che presto saranno insostenibili per la nostra sanità. In cinque anni nel mio istituto le cure sono passate da essere un peso economico quasi irrisorio all'attuale 40 per cento delle spese. E noi curiamo i tumori del sangue che in Italia sono qualche migliaio di casi l'anno.

Che succederà quando arriveranno i farmaci "intelligenti" per i tumori più diffusi in Italia, i big killer appunto, che colpiscono decine e decine di migliaia di persone ogni anno?".

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