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lunedì, dicembre 11, 2006

Troppe proteine? Rischio di tumori

Assumere meno proteine potrebbe ridurre il rischio di sviluppare alcune forme tumorali che non sono associate all’obesità, quali il cancro alla prostata e il tumore della mammella nelle donne in età premenopausale. Lo sostiene uno studio condotto alla Washington University School of Medicine in St. Louis e coordinato da Luigi Fontana, del Dipartimento di Sanità alimentare ed animale dell’ISS e pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition.

“Prevenire le malattie cronico-degenerative associate agli scorretti stili di vita ed implementare strategie in grado di promuovere un invecchiamento ottimale è una sfida importante per il futuro e uno degli obiettivi della ricerca del nostro Istituto, tanto più che è sempre più evidente come l’incremento della vita media della popolazione italiana non sia accompagnato da un parallelo miglioramento della qualità di vita", spiega Enrico Garaci, Presidente dell’ISS. "Proprio per questo motivo, apriremo all’ISS un Centro, dotato di una sorta di ‘cucina metabolica’, di una palestra e di ambulatori, dove studiare i meccanismi attraverso cui una corretta alimentazione e l’esercizio fisico rallentano l’invecchiamento di organi e tessuti nell’uomo e prevengono le malattie croniche-degenerative in soggetti che non hanno ancora subito danni organici irreversibili”.

I ricercatori hanno preso in esame tre gruppi di individui pareggiati per età e per sesso: 21 vegetariani crudisti che assumevano una media giornaliera di 0.73 grammi di proteine per chilogrammo di peso corporeo, 21 atleti specializzati nella corsa di resistenza, allenati a percorrere poco meno di 80 km alla settimana e nella cui dieta erano compresi 1.6 grammi di proteine giornaliere per chilogrammo di peso corporeo e un gruppo di persone sedentarie che assumevano una tipica dieta americana con 1.23 grammi di proteine per chilo di peso.

“La stretta correlazione tra alimentazione e alcune delle più comuni forme di cancro è un’ipotesi abbastanza fondata", afferma Luigi Fontana, ricercatore dell’ISS e coordinatore dello studio. "I meccanismi, tuttavia, attraverso cui i diversi alimenti promuovono o proteggono dal cancro non sono ancora chiari. E’ ormai assodato che le persone in sovrappeso ed obese hanno un aumentato rischio di sviluppare il cancro del colon, dell’endometrio, del rene, dell’esofago e della mammella soprattutto dopo la menopausa. Esistono tuttavia due forme tumorali che non sono associate all’eccessivo accumulo di grasso: il cancro alla prostata e il tumore della mammella nelle donne in età premenopausale”. Dalla ricerca è emerso che una dieta ipoproteica potrebbe essere in grado di proteggerci da queste forme di cancro più dell’esercizio fisico, indipendentemente dalla quantità di grasso corporeo.

“Nel corso della nostra indagine abbiamo constatato che sia gli individui che praticavano da lungo tempo un regime alimentare caratterizzato da un basso apporto proteico nell’ambito di una dieta relativamente ipocalorica, sia gli atleti, abituati a svolgere attività fisica con regolarità e precisione, mostravano un basso contenuto di grasso corporeo e di conseguenza dei valori più bassi d’insulina, di testosterone libero e di citochine pro-infiammatorie. L’apporto proteico giornaliero corretto secondo le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dovrebbe essere di 0.8 grammi/Kg/die di proteine, che è molto simile a quello che gli individui che seguono la dieta ipoproteica arruolati nello studio mangiano, mentre molti americani e molti italiani mangiano 1.2 - 1.6 grammi/Kg di proteine al giorno", afferma Fontana, "cioè mangiano circa il 30 - 50 per cento in più di ciò che è raccomandato dagli esperti. E’ ormai chiaro che se aumentiamo del 30 - 50 per cento rispetto al fabbisogno le calorie introdotte giornalmente diventiamo obesi, tuttavia, paradossalmente, non sappiamo cosa succede se mangiamo cronicamente più proteine di quelle che sono necessarie per mantenere un bilancio azotato neutro. Il problema è che nei paesi industrializzati, e purtroppo ora anche in quelli in via di sviluppo, non si mangiano quantitativi sufficienti di verdura, legumi, cereali integrali e frutta, di conseguenza la nostra dieta si compone troppo spesso prevalentemente di prodotti di origine animale (carne, formaggio, uova e burro), cereali eccessivamente raffinati e zuccheri semplici, che a lungo andare sono deleteri per la salute perché estremamente calorici e perché troppo ricchi di proteine e sale, caratteristiche queste che costituiscono potenti fattori di rischio per l’obesità addominale, per il diabete, per l’ipertensione arteriosa, per le malattie cardiovascolari e per taluni tipi di cancro”.

Fonte: Ufficio stampa ISS 2006.
A cura de Il Pensiero Scientifico Editore

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Quando si dice fumarsi il cervello...

La nicotina è responsabile di cambiamenti nel metabolismo del cervello, che sono probabilmente il campanello d’allarme di un funzionamento alterato. Lo fa sospettare uno studio condotto in Germania e illustrato in anteprima presso il convegno annuale della Radiological Society of North America.

Che il fumo non faccia bene alla mente non è un’idea nuova. La dipendenza dal fumo, come tante altre dipendenze, avviene proprio perché le sostanze prodotte dalla sigaretta vanno a stimolare una risposta in certe aree cerebrali, ad esempio quelle preposte alla percezione del dolore e del piacere. Con le attuali tecniche di imaging i ricercatori sono in grado di "vedere" ciò che avviene nel cervello mentre si pensa, si compie un’azione, si prova un’emozione o si assume una sostanza; così grazie a una moderna tecnica che permette di studiare in tempo reale la concentrazione nel cervello di sostanze neuroattive prodotte dal metabolismo, alcuni ricercatori dell’Università di Bonn sono riusciti ad analizzare come il metabolismo cerebrale viene alterato a causa dell’abitudine al fumo.

Sono state prese in esame diverse sostanze naturalmente prodotte durante l’attività cerebrale. I soggetti fumatori, sottoposti a questa tecnica d’avanguardia per l’imaging cerebrale, hanno mostrato alterazioni nella concentrazione di tali sostanze. Ad esempio la creatina totale, che altri studi hanno notato essere legata al rischio di ricadute in soggetti dipendenti da sostanze d’abuso, è più elevata nei lobi frontali del cervello dei fumatori. Sono risultati invece a concentrazioni più scarse del normale altri due prodotti del metabolismo cerebrale: la colina, importante per salute delle membrane cellulari, e l’N-acetilaspartato, che scarseggiava nell’area cerebrale reattiva alle sensazioni piacevoli o dolorose. In particolare, la colina era a livelli bassi soprattutto nelle donne fumatrici, mentre l’N-acetilaspartato era tanto più scarso quante più sigarette il soggetto fumava in un anno.

Gli autori della ricerca hanno fatto notare come, in base a precedenti studi, la bassa concentrazione di queste sostanze nel cervello spesso si riscontri in soggetti sofferenti di disturbi dell’umore e di altre patologie psichiatriche, il che getta un’ombra ulteriore sugli effetti che questo "vizio" tanto comune provoca a livello cerebrale, invitando a non prendere sottogamba quest’abitudine e prestare maggiore attenzione alla salute del proprio cervello.

Fonte: RSNA 2006: Strenghtening professionalism. 2-8 dicembre 2006, Chicago.

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venerdì, novembre 17, 2006

Fumo e sale nemici dell'esofago

Il fumo e l’eccesso di sale a tavola aumentano il rischio di reflusso gastroesofageo, un problema molto diffuso caratterizzato dalla risalita dei succhi gastrici nell’esofago con conseguente pirosi, vale a dire una sensazione di bruciore che dallo stomaco si irradia verso l'alto. È quanto affermato dall’équipe di Magnus Nilsson presso il Karolinska Hospital di Stoccolma con uno studio che invece sembra scagionare altri "sospetti", tra cui il tè e l’alcol.

Per la prima volta utilizzando un vasto campione di individui (3153 persone con i sintomi del reflusso e 40.210 persone sane) il team svedese ha dimostrato che il rischio di tale disturbo, che può avere conseguenze anche sulla salute del cuore, è il 20 per cento più alto nei fumatori che hanno il vizio da 1-5 anni, ma si impenna al 70 per cento nei fumatori da 20 anni o più. Lo studio sarà pubblicato sul periodico specializzato Gut.

E a fare compagnia al fumo tra i colpevoli, hanno detto gli specialisti, c’è anche un altro “vizio”, quello di salare in abbondanza le pietanze, in particolare di tener fede all’abitudine del sale a tavola per fare qualche “ritocco” alla salatura fatta durante la preparazione del pasto.

Chi ha questa pessima abitudine, deleteria anche per la salute cardiovascolare, ha un rischio di soffrire di reflusso più alto del 70 per cento. Invece, hanno detto gli esperti, sembra che il pane integrale e la ginnastica siano due fattori protettivi.

Si hanno numerosissime informazioni sul reflusso gastroesofageo e sulle sue conseguenze a lungo termine (si tratta tra l'altro di un disturbo che, se in forma grave e non trattata, può costituire un fattore di rischio per il tumore dell'esofago), hanno concluso gli esperti in gastroenterologia, ma ancora non si era in possesso di prove conclusive circa gli stili di vita da evitare, anche se alla sbarra erano stati già additati molti sospetti.

Bibliografia. Nilsson M, Johnsen R, Ye W et al. Lifestyle related risk factors in the aetiology of gastro-oesophageal reflux. Gut 2004; 53: 1730-1735.

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venerdì, ottobre 20, 2006

Tumore della pelle

Le cellule emettono suono specifico

A cura de Il Pensiero Scientifico Editore

Le cellule tumorali della pelle, se colpite con una luce laser blu, emettono delle onde che possono essere rilevate da specifici apparecchi; la tecnica può rilevare fino a dieci cellule cancerogene in un campione di sangue ed è stata messa a punto dai ricercatori dell’Università del Missoury-Columbia. Il lavoro è stato pubblicato sull’ultimo numero della rivista Journal of Optics Letters.

In particolare sono i granuli di melanina che colpiti dalla luce laser assorbono l’energia prodotta dal fascio e la rilasciano sotto forma di calore; questo cambiamento di temperatura genera una parziale rottura dei granuli di melanina accompagnati da un "sonoro" rumore che si propaga nel tessuto come uno tsunami e può essere captato da rilevatori fotoacustici.

Le onde sonore prodotte dai granuli di melanina sono ultrasuoni ad alta frequenza che possono essere rilevati con speciali microfoni e analizzati al computer. Il melanoma è un tumore maligno che origina dai melanociti (cellule che producono melanina) i quali perdono l’inibizione da contatto e continuano a dividersi producendo grandi quantità di granuli di melanina. Le cellule tumorali, dunque, per il loro alto contenuto in melanina se irraggiate con luce laser producono una risposta rispetto alle cellule sane e pertanto possono essere rilevate.

"Questo nuovo test ci permetterà di individuare un numero maggiore di tumori e, auspicabilmente, anche precocemente", ha dichiarato John Viator, ingegnere biomedico e coautore della ricerca. "Il solo motivo per cui si può trovare della melanina nel circolo sanguigno è perché vi sono dei melanociti impazziti. Il test messo a punto nel nostro laboratorio è in grado di verificare la presenza di cellule tumorali e la loro concentrazione in soli trenta minuti; può dunque essere utile sia in fase diagnostica sia dopo la terapia per verificare se il tumore è stato estirpato", ha concluso Viator.

Fonte: Weight RM et al. Photoacoustic detection of metastatic melanoma cells in the human circulatory system. Optics Letters 2006; 31(20):2998-3000.




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lunedì, ottobre 09, 2006

TERAPIE PSICOLOGICHE E SOPRAVVIVENZA

di: Eleonora Capovilla, Samantha Serpentini
U.O. di Oncologia Medica - U.O. di Radioterapia, A.O. di Padova

A partire dagli anni ’70 l’aumento delle possibilità di cura dei tumori ha spinto discipline quali l’oncologia, la psicologia, la psichiatria e l’assistenza sociale ed infermieristica ad un crescente interesse per le problematiche psicologiche connesse alla sopravvivenza e, quindi, per l’approccio psicosociale al cancro. In tal senso, negli ultimi trent’anni sono stati compiuti notevoli passi avanti: la ricerca psico-oncologica si è diffusa in un gran numero di paesi allo scopo di analizzare l’impatto psicosociale del cancro su pazienti, famiglie e personale curante e di approfondire il ruolo delle variabili psicologiche e comportamentali nella prevenzione, nella diagnosi precoce e nella cura delle neoplasie. Pertanto, ora la domanda corretta da porsi non è più “E’ utile l’intervento psicologico?”, ma “Quali interventi, diretti verso quali fini, con quali pazienti e con quali modalità di conduzione, sono efficaci?”.

Tra i numerosi interventi psicologici sperimentati i più conosciuti sono i seguenti:

1) le psicoterapie individuali, ad orientamento psicodinamico (es. la terapia di LeShan) o di tipo cognitivo-comportamentale (es. l’Adjuvant Psychological Therapy di Moorey e Greer ), di cui si sono ottenute evidenze sperimentali di utilità nelle diverse fasi della malattia neoplastica;

2) le psicoterapie di gruppo, anch’esse ad orientamento dinamico o cognitivo-comportamentale, o i gruppi di supporto, particolarmente utilizzati con le donne affette da carcinoma della mammella;

3) le numerose varianti di training comportamentale tra cui le tecniche di rilassamento, il biofeedback, l’ipnosi, ecc., che sono risultate efficaci nella riduzione dello stress emotivo, dell’astenia e del dolore;

4) gli interventi psicoeducazionali, individuali o di gruppo, che rappresentano la modalità relativamente più recente di approccio psicosociale al cancro. Essi possono consistere in programmi diversi ma la struttura di base che li caratterizza è quella di coniugare la componente strettamente informativo-educativa con la componente di supporto psico-emozionale. Questi interventi stanno mostrando notevoli benefici sia sugli stati affettivi che sulle capacità di adattamento al cancro, soprattutto in fase postchirurgica e con pazienti in fase iniziale di malattia e buona prognosi.

Nel campo della terapia psicosociale al cancro sono stati condotti numerosi studi che hanno dimostrato l’efficacia delle terapie psicologiche nei malati di cancro, inoltre si registrano molteplici tentativi, più o meno validi, di analizzare le possibili interazioni tra fattori psicosociali e fattori biologici; eppure pochissime ricerche hanno cercato di esaminare gli effetti medici degli interventi psicologici in modo prospettico col fine di indagare eventuali influenze rispetto alla sopravvivenza. Infatti, nella letteratura psico-oncologica internazionale è possibile rintracciare solamente due studi sperimentalmente condotti e ben documentati: lo studio Spiegel e coll.(1981, 1989)(1, 2) e quello di Fawzy e coll.(1990, 1993)(3, 4, 5).

Lo studio di Spiegel era finalizzato alla valutazione degli effetti immediati e a lungo termine di una terapia di gruppo sulla sopravvivenza in 58 donne affette da carcinoma della mammella in metastasi. Le pazienti furono assegnate casualmente ad un gruppo di intervento (cure oncologiche mediche + terapia di gruppo settimanale per la durata di 1 anno) e ad un gruppo di controllo (solo cure oncologiche mediche). Dopo 1 anno dall’intervento il gruppo in trattamento psicoterapico mostrava, rispetto al gruppo di controllo, un livello inferiore di disturbi dell’umore (depressione, ansia, fobie) ed una riduzione significativa del dolore.

A distanza di 10 anni il tempo di sopravvivenza era risultato significativamente più lungo per il gruppo di intervento, con una media di 36.3 mesi rispetto ad una media di 18.9 mesi registrata nel gruppo di controllo. Inoltre i dati mostrarono che livelli più bassi del disturbo dell’umore e livelli più elevati di vigore, rilevati alla fine della terapia psicologica di gruppo, risultavano correlati significativamente ad una maggiore longevità.

Lo studio di Fawzy è stato sperimentato su 66 pazienti affetti da melanoma cutaneo in fase iniziale col proposito di valutare gli effetti immediati e a lungo termine di un intervento psicoeducazionale strutturato, della durata di 6 settimane, sugli stati affettivi e su alcune misure della funzione immunitaria. I risultati di questa ricerca hanno mostrato nei soggetti sottoposti all’intervento (n=38), rispetto ai soggetti di controllo (n=28), una significativa riduzione dello stress psicologico ed un effettivo miglioramento dell’adattamento alla malattia. Inoltre lo studio immunologico riscontrò nel gruppo sperimentale un aumento delle cellule NK e della loro attività citotossica. Gli stessi Autori a distanza di 6 anni effettuarono uno studio di follow-up finalizzato a valutare la recidiva e la sopravvivenza nei pazienti che avevano partecipato alla precedente ricerca. Il gruppo di controllo mostrò una tendenza alla recidiva (13 pazienti su 34) ed un tasso di mortalità significativamente maggiori (10 pazienti su 34) rispetto ai pazienti sperimentali (rispettivamente 7 pazienti su 34 e 3 pazienti su 34).

La ricerca di Fawzy e coll. è stata da noi ripetuta nella realtà italiana (Capovilla e coll., 1999)(6), a Padova, su 19 pazienti affetti da melanoma cutaneo in stadio iniziale e buona prognosi, casualmente assegnati ad un gruppo sperimentale (intervento psicoeducazionale+valutazione psico-immunologica) e ad un gruppo di controllo (valutazione psico-immunologica). Trattandosi di uno studio pilota i risultati sono limitati ma, nonostante ciò, essi evidenziano al termine dell’intervento nei soggetti sperimentali, rispetto a quelli di controllo, delle variazioni a livello psicologico (spirito combattivo e qualità di vita) ed una maggiore potenzialità di risposta immunitaria, sia cellulo-mediata che anticorpo-mediata. I dati relativi alla sopravivenza sono attualmente in fase di valutazione e verranno descritti in sede congressuale.

In conclusione, lo studio della possibile influenza delle terapie psicologiche sulla sopravvivenza è un campo che necessita di ulteriori indagini. Infatti, le relazioni tra sistema immunitario, cancro e stress sono molto complesse e non sono ancora state chiaramente determinate in modo scientifico. In ogni caso, sembra ormai evidente il ruolo degli aspetti psicologici, comportamentali e sociali sull’approccio al cancro e sulle modalità di adattamento ad esso.

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giovedì, settembre 14, 2006

Contro il melanoma le cellule "ogm"

di Silvia Baglioni per conto di :Repubblica

Cento anni fa nasceva la chemioterapia per combattere il cancro, da allora l'oncologia, a piccoli passi, è arrivata lontano. Con questa riflessione si è aperto, a Milano, il convegno Targeted Therapies in cancer: mith or reality?, organizzato da Francesco Colotta del Nerviano Medical Science e da Alberto Mantovani dell'Istituto Clinico Humanitas. E' possibile curare il cancro con terapie sempre più personalizzate, tanto da debellarlo a da trasformarlo in una malattia cronica? Leggendo la stampa scientifica sembrerebbe di sì.

Manipolazione
L'ultimo esempio risale a poche settimane fa. La rivista Science riferiva i risultati di una sperimentazione condotta dall'equipe di Steven Rosenberg, al National Cancer Institute di Bethesda nel Maryland, su 17 malati affetti da gravi forme metastatiche di melanoma (tumore della pelle). Manipolando geneticamente specifiche cellule del sistema immunitario dei pazienti (linfociti T), gli scienziati sono riusciti a guarire due persone che da diciotto mesi non presentano più alcun sintomo. Lo stesso Rosenberg, però, guarda con molta prudenza a questo risultato, anche se è convinto che la terapia con cellule immunitarie, modificate grazie all'ingegneria genetica, rappresenti il futuro.

"Pochi anni fa" spiega Mantovani "lo stesso Rosenberg ha scoperto che, in rari e fortunati casi, il sistema immunitario di alcuni pazienti afflitti da melanoma è in grado di riconoscere le cellule tumorali e di scatenarsi contro di esse, fino a debellare la malattia (remissione spontanea). Questi linfociti possiedono un recettore capace di riconoscere in modo specifico le cellule neoplastiche. Nell'ultima sperimentazione l'equipe statunitense ha prelevato i linfociti dei 17 pazienti, lì ha modificati geneticamente, inserendo il recettore specifico, e lì ha fatti crescere in provetta.

Rosenberg ha ottenuto così un piccolo esercito di "soldati ogm" ben addestrati a combattere il tumore. Attenzione però a non enfatizzare questo risultato troppo esiguo nei numeri e da verificare".Questione di compatibilità"Dal punto di vista tecnico il lavoro è ben fatto" commenta Malcon Brenner del Center for Cell and Gene Therapy di Houston. "Per utilizzare questa metodica in campo clinico sarebbe necessario, però, raggiungere valori di risposta più elevati. Tuttavia non ci si può aspettare grandi numeri: i pazienti che hanno una possibilità di reagire alla cura sono quelli che possiedono un particolare insieme di geni di istocompatibilità (HLA A II), presenti solo nel 50% della popolazione.

Il gruppo studiato a Bethesda possedeva questo tipo di background genetico, ma tuttavia si è avuto un esito positivo solo nel 10% del totale". "Ciò vuol dire che, se i dati sperimentali saranno confermati,", conclude Brenner, "solo un esiguo numero di pazienti potrà beneficiare di questa terapia. Va da se che un approccio immuno-mediato per combattere alcuni tumori, come melanoma, carcinoma renale, tumore dell'intestino, linfoma, leucemia e forse mieloma, è molto promettente e notevolmente complesso".

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lunedì, agosto 28, 2006

Diabete e Tumore

Il diabete aumenta il rischio di malattia epatica cronica e di carcinoma epatocellulare
Uno studio coordinato da Ricercatori dello Houston Veterans Affairs Medical Center ha valutato l’associazione tra il diabete e la malattia epatica cronica.Sono stati identificati tutti i pazienti che tra il 1985 e il 1990 sono stati dimessi dall’ospedale con una diagnosi di diabete.
Questi pazienti sono stati seguiti fino al 2000.Sono stati esclusi i soggetti affetti da concomitante malattia epatica.I soggetti presi in esame sono stati 173.643 con diabete e 650.620 senza diabete.
La maggior parte ( 98% ) era di sesso maschile e quelli affetti da diabete erano più anziani rispetto a quelli senza diabete ( 62 versus 54 anni ).
L’incidenza di malattia epatica cronica non-alcolica è risultata molto più alta tra i pazienti diabetici ( 18.13 contro 9.55, rispettivamente, per 10.000 persone-anno ).
Simili risultati sono stati ottenuti per il carcinoma epatocellulare ( 2.39 contro 0.87, rispettivamente, per 10.000 persone-età ).Il diabete era associato ad un indice di rischio ( hazard rate ratio , HRR ) di 1.98 per la malattia epatica cronica non-alcolica e di 2.16 per il carcinoma epatocellulare.
I pazienti con diabete da più di 10 anni presentavano il massimo rischio.Questo studio ha dimostrato che tra gli uomini affetti da diabete il rischio di malattia epatica cronica non-alcolica e di carcinoma epatocellulare è raddoppiato.




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giovedì, agosto 24, 2006

Nicotina e Cancro

Sebbene la nicotina contenuta nel tabacco non avesse dimostrato effetti cancerogeni diretti , i ricercatori hanno sospettato per molti anni che essa avesse un ruolo nel promuovere la crescita tumorale. Recentemente uno studio Statunitense ha aggiunto nuove prove a questa teoria. Questi nuovi dati richiamano l’attenzione sull’uso a lungo termine della nicotina come terapia sostitutiva nella disassuefazione dal tabacco. I ricercatori del National Cancer Institute di Bethesda e del Lovelace Respiratory Research Institute di Albuquerque hanno studiato gli effetti della nicotina e del NNK, una sostanza cancerogena specifica del tabacco, su colture di cellule epiteliali bronchiali umane normali.

Basandosi su precedenti studi che avevano dimostrato l’attività del sistema enzimatico Akt nelle cellule di cancro del polmone prelevate da fumatori i ricercatori hanno ipotizzato che composti come la Nicotina e NNK potessero avere effetto sul sistema enzimatico Akt anche nelle cellule normali del polmone. Il sistema enzimatico serina/treonina kinasi Akt regola diverse attività cellulari come la crescita cellulare e l’apoptosi. L’ipotesi formulata dai ricercatori è che le cellule con danni al DNA in presenza di Akt attivata possono più facilmente sopravvivere e crescere e quindi possono accumulare altri danni al DNA promuovendo la trasformazione da cellule precancerose a cellule cancerose. I risultati dello studio hanno dimostrato che le concentrazioni di nicotina e di NNK pari a quelle che si raggiungono nel sangue dei fumatori attivano la cascata enzimatica dell’Akt. L’attivazione dell’Akt avviene in pochi minuti e rende le cellule epiteliali normali dell’epitelio bronchiale più simili alle cellule cancerose .L’apoptosi viene inibita e viene stimolata la crescita delle cellule malate .Lo studio dimostra che lo sviluppo del cancro del polmone è più complesso di quanto si pensasse prima e che l’attivazione dei segnali di trasduzione a livello cellulare contribuisce alla cancerogenesi tabacco correlata. Lo studio potrebbe aprire, inoltre ,un nuovo filone di ricerca per farmaci antitumorali. Alcuni hanno suggerito per la nicotina un nuovo meccanismo d’azione nella cancerogenesi che implicherebbe la promozione dello sviluppo dei vasi tumorali. La scoperta che la nicotina possa promuovere la crescita tumorale ha implicazione per i consumatori dei sistemi di rilascio della nicotina? Questi prodotti sono sicuri?

Per quanto emerge dagli studi attuali non ci sono ancora motivi per controindicare l’uso dei dispositivi di rilascio della nicotina per le 10 o 12 settimane previste per la terapia sostitutiva in corso di sospensione del fumo di tabacco e i vantaggi della cessazione del fumo sono senz’altro maggiori dei rischi associati nel breve periodo all’assunzione della nicotina. Oltre tale periodo non possiamo affermare che l’uso della nicotina sia sicuro.

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mercoledì, agosto 16, 2006

Oncologia, "rivoluzione" dai mass-media

La "rivoluzione sanitaria" degli ultimi anni, ha portato il paziente al centro della sanità, ha incoraggiato la comunicazione sociale sulla salute e ridimensionato alcune tematiche come quelle oncologiche. Infatti il Censis, con il Cipomo (Collegio Italiano dei Primari Oncologi Medici Ospedalieri), ha condotto un'analisi delle caratteristiche delle comunicazioni oncologiche, con particolare riferimento a quelle condotte "a mezzo stampa" dal 1970 e dintorni (La Repubblica, Corriere della Sera e alcune trasmissioni Rai).

La forte domanda di informazione esercitata dai cittadini su problemi relativi ai tumori si è tradotta in un'offerta sempre più articolata e multiforme. "La comunicazione sulla salute in genere", dice Giorgio Cruciali, neo presidente della Cipomo, "ha assecondato e favorito l'evoluzione del rapporto cittadino-medicina-salute. Il paziente è oggi più consapevole e, grazie ai mass-media, può fare scelte, concordate con il medico, per organizzare una terapia individuale".
I mezzi di informazione illustrano e raccontano le innovazioni in oncologia e i più recente ritrovati anti-tumorali.

Televisioni e giornali, dopo i professionisti del settore, sono le fonti di informazione sanitaria non professionale che, per la loro ascendenza e conoscenza del sociale, finiscono con il modificare il comportamento pubblico de rendendosi uniche e preziose: "Una mutazione", dice Concetta Maria Vaccaro, responsabile del settore Welfare Fondazione Censis, "dovuta all'acquisizione di informazioni su "quella patologia" favorita anche dalla forte differenziazione operata dai quotidiani che riportano più del 20% di articoli legati alla prevenzione oncologica, che superano il 40% quando pubblicati sui settimanali".

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venerdì, agosto 11, 2006

Da un’alga dei mari del nord una difesa per l’utero

La carragenina, usata come addensante alimentare, inibisce l’azione del virus HPV. Verrà studiato un gel vaginale protettivo. da un articolo di :Donatella Barus

MILANO – Si chiama carragenina, si ottiene dalla bollitura di alcune varietà di alghe marine presenti lungo le coste rocciose dei mari del nord ed è ampiamente usata come addensante dall’industria alimentare e cosmetica, con la sigla E407.

Ma ha destato l’interesse anche dei medici perché promette di essere un deterrente contro il papilloma virus umano, in sigla HPV, noto come il principale responsabile delle infezioni che possono portare ad un tumore del collo dell’utero. Un effetto preventivo che la rivista Nature ha definito “sorprendente”, dal momento che il contagio del virus, trasmesso attraverso l’attività sessuale, viene ostacolato anche con una piccola quantità di carragenina, un ingrediente facile da reperire, economico e che pare agire a concentrazioni molto più basse rispetto ai prodotti attualmente in commercio.

I ricercatori del laboratorio di oncologia cellulare del National Cancer Institute di Bethesda (Stati Uniti), hanno scoperto le qualità di questo estratto di alga durante il lavoro di analisi su diversi composti inibitori dell’HPV. La carragenina agisce impedendo al virus di legarsi alle cellule della cervice uterina ed è già in sperimentazione per un analoga capacità di bloccare il virus HIV, responsabile dell’AIDS.

La carragenina è contenuta in diversi tipi di gel lubrificanti vaginali, attualmente in commercio, che vengono classificati come sicuri dalle autorità sanitarie: un aspetto che, come sottolineano gli esperti, avvicina la prospettiva di avere presto a disposizione un microbicida topico in forma di gel. Gli autori dello studio, pubblicato sulla rivista Public Library of Science Pathogens, specificano che serviranno studi clinici specifici prima di poter raccomandare come inibitore dell’HPV un prodotto a base di carragenina.

Intanto, come dicevamo, proseguono le sperimentazioni anche sul virus HIV, la più importante delle quali coinvolge oltre 5.000 donne in Sudafrica epermetterà di valutare, entro il 2007, l’efficacia di un gel vaginale contenente carragenina per prevenire l’infezione. Come l’AIDS, anche i tumori della cervice uterina (che in Europa e negli Stati Uniti sono stati frenati dalla diffusione degli screening con il PAP test) rappresentano un grave problema per i Paesi meno sviluppati.

Secondo N. K. Ganguly, capo dell’Indian Council of Medical Research, se la carragenina venisse aggiunta ad un inibitore dell’HIV, potrebbe rappresentare un’importante arma preventiva contro le malattie sessualmente trasmesse. Ma altre ricerche sono ancora necessarie.

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sabato, agosto 05, 2006

Terapia chelante

a cura della Dott.Virginia A.Cirolla*

La chelazione e' un processo che s'incontra frequentemente in natura, nel quale metalli inorganici come ferro, platino, formano complessi con la materia organica.

Il suo utilizzo terapeutico ha avuto inizio nel 1893, sulla scia del nobel Werner che ipotizzo' la formazione di un anello stereotrofico, diverso dal modello di valenza, nel processo di chelazione. Nel 1955 il Dott.Clark informava la comunita' scientifica dei benefici dell'EDTA per curare i disturbi circolatori e cardiovascolari. Quel gruppo pionieristico fondo' quella che oggi e' l'ACAM (American College of Advancement in Medicine) e che comprende oltre 1000 medici specializzati nell'uso terapeutico della Terapia Chelante, oltre ad una buona conoscenza dei trattamenti nutrizionali per le malattie vascolari, degenerative e dell'invecchiamento tessutale.

Sono in corso studi ammessi dalla FDA per dimostrare l'innocuita' dell'EDTA. (Etilediaminotetracetato)

Oggi la chelazione e' utilizzata per eliminare dal corpo umano metalli tossici (Piombo, Mercurio, Cadmio, Alluminio) e per fermare il processo di aterosclerosi.

Un meccanismo d'azione consiste nella rimozione del calcio dalla placca aterosclerotica senza sottrarlo la' dove e' fondamentale per i normali processi dell'organismo e stimola la circolazione del sangue attivando il microcircolo.

Eliminando i metalli di transizione produce un effetto antinfiammatorio diminuendo i radicali liberi che sappiamo come molecole distruttive e lesive nei tessuti. Questa terapia inserita nei protocolli SITEC (Societa' Italiana di Terapia Chelante) unisce un insieme di farmaci antiossidanti e disintossicanti, utilizzati oltre che nelle malattie cardiovascolari anche nelle patologie degenerative ed autoimmuni come l'artrite reumatoide e la sclerosi multipla. E' proprio la sclerosi multipla considerata un mercurialismo cronico a risentire in positivo della terapia chelante.

In Oncologia la sua applicazione ha trovato negli ultimi anni risultati positivi per il suo ruolo di protezione immunitaria e si e' rivelata utile sia nella prevenzione sia negli aspetti terapeutici anche dopo cicli di chemioterapia.

Come terapia e' assolutamente innocua se praticata da mani esperte; deve essere somministrata per endovena lenta per tre ore circa con un frequenza media di una volta a settimana. Nella maggior parte dei pazienti in cui e' stata utilizzata, questa terapia ha provocato un miglioramento della circolazione cerebrale e periferica, un miglioramento della memoria e delle capacita' cognitive, della vista per deficit su base vascolare, riduzione significativa della mortalita' per tumore (come terapia preventiva), una disintossicazione dai metalli pesanti ed un beneficio effetto sulla vitalita' e sullo stato di salute in generale.

*Universita' La Sapienza

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mercoledì, agosto 02, 2006

Tumori: scoperte staminali nocive

Responsabili delle recidive nel cancro

Cellule staminali non sono sempre sinonimo di positività. Nell'immaginario comune quando si sente parlare di cellule staminali si pensa sempre alla ricerca su cellule bambine in grado di fare prodigi trasformandosi nei tessuti di volta in volta necessari, ma non è sempre così. Sono state identificate le cellule staminali cosiddette cattive, responsabili della crescita del tumore. La massa tumorale contiene, infatti, al suo interno, un nucleo di cellule progenitrici capaci di riprodursi e resistenti ai trattamenti anti-cancro. Mille volte più potenti delle cellule tumorali normali, queste staminali cattive sarebbero responsabili della ripresa della malattia dopo un intervento chirurgico o il trattamento farmacologico.

Cellula staminale

Lo studio, tutto italiano, su staminali adulte e rivolto al cancro del seno, è stato condotto dal team del Dipartimento di oncologia sperimentale di Marco Pierotti dell'Istituto nazionale tumori di Milano e pubblicato su Cancer Research. "Abbiamo messo a punto un modello sperimentale, sfruttando 14 frammenti chirurgici di donne operate per tumore - spiega Pierotti, illustrando la ricerca condotta da Dario Ponti, in occasione degli 80 anni dell'Int - e ottenendo così una serie di 'mammosfere"'.

Queste cellule staminali, presenti in una minima frazione nella massa tumorale e identificabili in base all'espressione di due antigeni sulla membrana cellulare, sono in grado di riprodurre nei topi lo stesso cancro di origine, anche quando vengono inoculate a bassissime concentrazioni. "Ne bastano mille, rispetto al milione di cellule totali necessarie altrimenti", spiega il ricercatore. Poche cellule umane per far ammalare i topolini, dunque. E all'Istituto sono riusciti non solo a isolare le staminali cattive, ma anche a sviluppare un modello in vitro che ne consente l'espansione. Queste super-cellule tumorali, che come le staminali buone si autorinnovano e generano cellule con diversi tipi di differenziazione, crescono e migrano: "non proliferano molto e tendono a essere quiescenti, lasciando alle loro cellule-figlie il compito di accrescere la massa tumorale".

Inoltre, in genere sono resistenti ai farmaci e alle radiazioni. "Averle individuate - dice Pierotti - consente di sviluppare nuove terapie per andare alla radice dell'insorgere del tumore, distruggerle ed evitare che la neoplasia si riformi".

Insomma, è il primo passo verso la messa a punto di reagenti utili per la diagnosi precoce, ma anche per terapie mirate a battere la componente staminale del tumore. Ma i ricercatori dell'Int hanno lavorato anche sulle staminali buone contro linfomi e leucemie.

Oggi il 50% delle persone con malattie onco-ematologiche viene trapiantato. Ma l'impianto di cellule staminali emopoietiche da donatore compatibile 'classico' comportava alte dosi di chemio e radio pre-trapianto, con alti rischi per i pazienti non più giovani. "Così abbiamo riadattato le dosi di farmaci pre-trapianto. E abbiamo condotto uno studio multicentrico su 150 pazienti sottoposti a trapianto da donatore familiare dal '99 al 2004", spiega Paolo Corradini dell'Int. Ebbene, sia per i pazienti giovani che per gli over 55 la percentuale di sopravvivenza è risultata identica. "Insomma, i risultati dello studio in corso di stampa sul Journal of Clinical Oncology - conclude il ricercatore - indicano che il trapianto allogenico a ridotta intensita' e' una procedura fattibile anche nei pazienti fino ad oggi esclusi dalla procedura". In futuro lo studioso pensa al trapianto di popolazioni cellulari riparatrici, e non di tutto il midollo, e anche all'uso di donatori non compatibili.

tratto da:www.tgcom.it
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domenica, luglio 30, 2006

I cellulari eccitano il cervello

tratto da: www.corriere.it

Lo studio non è in grado di stabilire però se i telefonini facciano male alla salute. «Implicazioni da approfondire»


ROMA - Non è ancora chiaro se facciano male alla salute oppure no. Quello che è certo, almeno secondo uno studio italiano che sarà pubblicato sulla rivista scientifica 'Annals of Neurology', è che i telefoni cellulari «eccitano» il nostro cervello. Lo afferma una ricerca condotta congiuntamente dai ricercatori dell'IRCCS Fatebenefratelli di Brescia e, a Roma, dall'Ospedale S.Giovanni Calibita-Fatebenefratelli, dalla Facoltà di Psicologia della Sapienza e dalla Clinica Neurologica all'Università Campus Bio-Medico.

METODO - «È dimostrato senza alcuna ombra di dubbio - affermano i responsabili dello studio - che le emissioni elettromagnetiche dei telefoni cellulari producono effetti sull'eccitabilità del cervello di chi li usa, ed in particolare in quella parte delicata che è la corteccia cerebrale». I ricercatori italiani sono partiti da un metodo denominato paired-TMS che consente di misurare l'andamento di eccitazione o inibizione indotto da una coppia di stimoli sulla corteccia cerebrale. Sono stati studiati 15 soggetti volontari, ai quali è stato fatto indossare un elmetto che incorporava due cellulari della generazione GSM, all'altezza dell'orecchio destro e sinistro, in modo da far coincidere il punto di massima esposizione elettromagnetica con la corteccia motoria destra e sinistra, riproducendo le medesime condizioni di un utente che usa il cellulare. I risultati, affermano gli studiosi, sono stati «sorprendenti»: prima dell'accensione dei telefonini, l'eccitabilità delle due metà (emisferi) del cervello risulta identica. La differenza tra i due emisferi diventa invece significativa dopo 45 minuti di esposizione e si mantiene tale anche 60 minuti dopo la disattivazione dei cellulari.

IMPLICAZIONI - Tale dimostrazione, precisano tuttavia gli autori dello studio, non implica necessariamente la pericolosità dello strumento di telefonia mobile, ma pone l'accento sulla necessità di approfondire gli studi per verificare gli eventuali effetti dannosi su persone che già soffrono di eccitabilità della corteccia, ad esempio i malati di epilessia, o, al contrario, l'eventuale utilizzo dal punto di vista clinico per il trattamento di persone con eccitabilità del cervello particolarmente ridotta, quali ad esempio malati di Alzheimer o pazienti dopo ictus».


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giovedì, luglio 27, 2006

Assistenza ai malati oncologici: ecco come deve essere

A cura de Il Pensiero Scientifico Editore

Come dovrebbe essere un'assistenza sanitaria per i malati oncologici degna di questo nome? Informata, aggiornata, rispettosa e libera. Ecco quanto sostemgono due tra le istituzioni sanitarie internazionali più importanti: il loro appello sarà raccolto?L’American Society of Clinical Oncology (ASCO) e la European Society for Medical Oncology (ESMO) hanno pubblicato un decalogo sulla qualità dell’assistenza sanitaria oncologica che vuole rappresentare una guida per le istituzioni sanitarie di tutto il mondo e un punto di riferimento per tutti i pazienti. Il decalogo è stato pubblicato sul Journal of Clinical Oncology e sugli Annals of Oncology.

“Nonostante i continui progressi nei trattamenti oncologici, sono ancora diffuse profonde ineguaglianze nell’assistenza sanitaria ai malati oncologici e gravi lacune nell’accesso a cure ottimali”, spiega Hakan Mellstedt, presidente ESMO. “Attraverso questo decalogo, alcuni addetti ai lavori hanno voluto fissare i punti essenziali della qualità dell’assistenza, essenziale per tutti i pazienti”. “Sia ASCO che ESMO concentrano tutti i loro sforzi sul miglioramento dell’assistenza sanitaria ai circa 10 milioni di pazienti ai quali viene diagnosticato un tumore ogni anno”, spiega Sandra J. Horning, presidente ASCO. “Questa collaborazione è il risultato diretto del nostro comune obiettivo di fornire alla comunità globale una serie di criteri in grado di migliorare la qualità dell’assistenza oncologica”.

Il decalogo ASCO/ESMO enumera i seguenti 10 punti-cardine per definire ‘di qualità’ un’assistenza sanitaria oncologica:

Accesso all'informazione:
i pazienti devono ricevere informazioni adeguate sulla loro patologia, compresi i possibili interventi, e rischi e benefici delle varie opzioni di trattamento.

Privacy, riservatezza e dignità: i pazienti devono beneficiare della privacy su diagnosi e trattamenti a loro forniti ed essere trattati con dignità sempre e comunque. Accesso alla

documentazione clinica: ai pazienti dovrebbe essere concesso di esaminare i risultati degli esami medici e la cartella clinica e averne copia tempestivamente.

Servizi di prevenzione: i pazienti devono avere accesso alle informazioni che riguardano la prevenzione del cancro e gli interventi preventivi basati su prove di efficacia. Non

discriminazione: l'accesso ai servizi sanitari deve essere garantito senza discriminazioni di razza, religione, sesso, nazionalità o disabilità.

Consenso al trattamento e scelta: i pazienti devono essere informati e messi in grado di partecipare alle decisioni che riguardano i trattamenti.

Assistenza oncologica multidisciplinare: il trattamento oncologico deve essere fornito da un'équipe di medici, chirurghi, radiologi oncologici, specialisti di cure palliative, infermieri e assistenti sociali, psicologi e psicoterapeuti.

Assistenza oncologica innovativa: i pazienti devono avere l'opportunità di partecipare ai trial clinici più importanti e avere accesso alle terapie più innovative.

Pianificazione dell’assistenza alla sopravvivenza: i pazienti sopravvissuti ad un tumore devono essere inquadrati in un piano di follow-up negli anni successivi alla guarigione.

Gestione del dolore, cure palliative e di supporto: i pazienti devono avere accesso alle terapie del dolore anche con analgesici oppioidi e a tutte le opzioni terapeutiche di supporto in assoluta libertà di scelta (ipnositerapia, Visualizzazioni, training Autogeno, ecc...).

Bibliografia. ASCO – ESMO press release 2006.

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lunedì, luglio 24, 2006

TUMORI: MELANOMA, SIENA SPERIMENTA ANTICORPO TERAPEUTICO

(ANSA) - SIENA, 21 LUG - Un nuovo anticorpo monoclonale terapeutico per la cura del melanoma viene sperimentato per la prima volta in Europa al Policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena. La sperimentazione viene condotta dall' equipe del dottor Michele Maio, direttore dell'U.O.C. Immunoterapia Oncologica del policlinico senese, e coinvolge altri cinque centri in Italia, tutti coordinati da Siena, e altre trenta strutture internazionali fra Stati Uniti, Europa e Australia. Nel complesso sono 160 le persone che nel mondo si sottoporanno al trattamento, le prima due in Europa lo stanno gia' facendo da alcuni giorni a Siena.

''L'anticorpo monoclonale utilizzato a Siena - come spiega il dottor Maio - e' in grado di bloccare l'attivita' funzionale di una popolazione specifica di linfociti che fisiologicamente regola, reprimendola, la risposta del sistema immunitario. Cioe' e' come togliere il freno a una parte del sistema immunitario potenziando la sua risposta al tumore. Questo perche' - aggiunge Maio - quando il sistema immunitario deve difendersi da un agente esterno puo' farlo producendo anticorpi o linfociti; quando poi l'agente esterno e' stato eliminato intervengono meccanismi di controllo che 'frenano' la risposta immunitaria''. Parallelamente a questa sperimentazione, a Siena si portera' avanti anche un altro studio, unico in Italia, per verificare gli effetti a lungo termine sul sistema immunitario privato dell'azione 'bloccante' dei linfociti. '

'In questo modo - spiega ancora Maio - oltre alla valutazione dell'efficacia clinica del trattamento, potremo comprendere contestualmente gli effetti biologici e capire le modalita' piu' adeguate di impiego clinico''.


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mercoledì, luglio 19, 2006

Leucemia, arrivano nuovi farmaci «intelligenti»


MILANO
– Anche i malati che diventano resistenti all’imatinib (meglio noto come Glivec), il farmaco che ha modificato radicalmente il destino delle persone colpite dalla leucemia mieloide cronica e dal tumore gastrointestinale stromale, possono sperare in una terapia efficace, basata su due molecole chiamate dasatinib e nilotinib, che hanno lo stesso meccanismo d’azione del progenitore, ma che presentano alcuni vantaggi significativi e sembrano in grado di superare la resistenza insorta. I due farmaci sono stati oggetto di importanti sperimentazioni, che hanno convinto la Food and Drug Administration (FDA, l’equivalente americano del nostro Ministero della Salute) ad attivare una procedura di approvazione accelerata, in particolare, per il dasatinib: questo farmaco verrà dunque utilizzato negli Stati Uniti per curare la leucemia mieloide cronica e quella linfoblastica acuta, nei pazienti diventati resistenti al Glivec. Per il nilotinib la Food and Drug Administration e l’omologa agenzia europea (l’EMEA) dovrebbero esprimersi tra la fine di quest’anno e l’inizio del 2007. Intanto, sia il nilotinib che il dasatinib sono stati inclusi nelle liste dei “farmaci orfani” dell’FDA statunitense e dell’EMEA europea, cioè tra i medicinali per il trattamento di patologie gravi e rare, che possono giovarsi di una procedura di approvazione centralizzata e più rapida, e di incentivi per facilitarne l’introduzione nel mercato.

LE SPERIMENTAZIONI - I due studi di cui parlavamo sono stati condotti da un team di ematologi dell’MD Anderson Cancer Center di Houston (Stati Uniti), e i risultati sono stati di recente pubblicati sul New England Journal of Medicine. Nel primo il dasatinib è stato sperimentato in 40 pazienti la cui malattia era diventata cronica e in 44 pazienti con una leucemia in proliferazione attiva, ottenendo una risposta ematologica completa o sostanziale nella gran parte dei casi; il farmaco è stato inoltre in grado di agire anche sulle alterazioni genetiche alla base della malattia in una buona percentuale di malati. Nel secondo studio, oggetto della sperimentazione è stato il nilotinib. Un centinaio di malati con una leucemia resistente al Glivec oppure linfoblastica acuta hanno ricevuto diversi dosaggi del farmaco, al fine di verificare l’esistenza eventuale di una tossicità e di stabilire quale fosse il protocollo migliore. Anche in questo caso la nuova molecola si è rivelata attiva tanto nei malati con leucemia cronica quanto in quelli in crisi blastica, agendo sui parametri del sangue e sulle alterazioni genetiche. In entrambe le sperimentazioni gli effetti collaterali più comuni sono stati a carico del midollo e del fegato, oltre ad alcune eruzioni cutanee.

COME FUNZIONANO - Glivec, dasatinib e nilotinib agiscono su un enzima che svolge un ruolo fondamentale per la vita della cellula cancerosa: la tirosin chinasi BCR-ABL, che aggiunge fosforo ad alcune proteine, e così facendo innesca processi indispensabili alla proliferazione del tumore. Il glivec si aggancia allla tirosin chinasi, bloccandone l’attività, ma la cellula cancerosa riesce talvolta a modificare il punto in cui avviene questo legame, diventando così resistente e sfuggendo all’azione terapeutica. Il nilotinib forma un legame molto più forte con l’enzima, e risente meno delle modifiche indotte dalle cellule cancerose. Nel dasatinib, invece, le cose vanno un po’ diversamente, anche perché il farmaco era stato in origine progettato per bloccare un’altra tirosin chinasi, detta SRC. Testato sulla BRC-ABL, si è dimostrato molto attivo e i test preliminari hanno spinto l’azienda farmaceutica che lo produce a provarlo sui malati.

GLIVEC IN PENSIONE? NIENTE AFFATTO - Siamo quindi in presenza di molecole che potrebbero presto sostituire il Glivec? Sportello Cancro lo ha chiesto a Franco Mandelli, ematologo dell’Università La Sapienza di Roma e presidente dell’Associazione italiana contro le leucemie, grande esperto di Glivec, che spiega: «Di sicuro si aprono buone prospettive di cura per tutti coloro che non possono più beneficiare del Glivec, e cioè circa il 16 per cento dei malati con malattia cronica trattati con l’imatinib, che hanno una ricaduta entro cinque anni. Ciò però non significa che sia già giunta l’ora di mandare in pensione il Glivec: occorreranno ancora molti studi, confronti, tentativi, prima di potersi esprimere, ed è probabile che alla fine tutte e tre queste molecole resteranno a disposizione dei malati, ciascuna da utilizzare a seconda della situazione specifica o quando un’altra ha fallito. Ora - commenta ancora Mandelli - bisognerà capire se, come sembra, le nuove molecole sono in grado di assicurare una guarigione completa, cosa che il Glivec non sempre riesce a fare, obbligando il malato a una terapia che teoricamente dura tutta la vita».

L’Italia è all’avanguardia in queste ricerche, grazie anche al lavoro svolto dal Gruppo di studio sulla leucemia mieloide cronica presieduto da Michele Baccarani, direttore dell’Unità operativa di ematologia dell’Ospedale Sant’Orsola Malpighi di Bologna. Questo ha fatto sì che il nostro sia stato uno dei primi Paesi ad adottare rapidamente, nella pratica clinica quotidiana, il Glivec. «Oggi - aggiunge Mandelli - i malati possono beneficiare di questo farmaco, che ha sostituito quasi del tutto le terapie precedenti basate su interferone e trapianto. Le vecchie cure non davano grandi risultati; al contrario il Glivec, da subito rimborsato dal Servizio sanitario nazionale, assicura tassi di remissione del tumore attorno al 90 per cento e percentuali simili per la sopravvivenza a cinque anni: il tutto con effetti collaterali assai ridotti, rispetto alla chemioterapia tradizionale».


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domenica, luglio 16, 2006

L'ansia? Può salvarci dal tumore del retto

Una dose accettabile di ansia può essere una buona cosa se viene applicata alla ricerca di eventuali sintomi di tumori: lo sostengono i ricercatori della Washington University School of Medicine di St. Louis in un articolo pubblicato dalla rivista Psycho-Oncology. Uno studio dimostra che le persone con un basso livello di ansia tendono a ignorare sintomi di tumore al retto per lunghi periodi di tempo, ritardandone il trattamento. Viceversa, persone con almeno un moderato livello di ansie tendono a riconoscere velocemente sintomi come il sanguinamento rettale e a collegarli ad una patologia grave.

“Praticamente tutti abbiamo sentito storie di pazienti che avevano sintomi di tumori ma hanno aspettato a lungo prima di cercare aiuto medico. Mi incuriosisce molto la psicologia di questo comportamento”, spiega Stephen Ristvedt, psichiatra. “La maggior parte delle persone motiva questa scelta con la paura o con la riluttanza a sentire la parola ‘cancro’ dal proprio medico, ma non capisco perché al tempo stesso tali persone siano generalmente ottimiste e non preoccupate come dovrebbero dai loro rinvii”.

Lo studio ha esaminato 69 pazienti con diagnosi di tumore al retto in cura presso il reparto di Colon and Rectal Surgery della Washington University School of Medicine. Ai pazienti è stato chiesto di indicare quanto tempo è passato dai primi sintomi alla consapevolezza che potesse trattarsi di qualcosa di grave e quanto tempo è passato dalla comparsa delle loro paure alla decisione di rivolgersi ad un medico. In più, ogni paziente è stato sottoposto ad un test psicologico per misurare il suo livello di ansia.

L’analisi dei dati ha mostrato che il 71 per cento non ha attribuito il sanguinamento rettale ad un tumore, ma ad emorroidi, dieta, danni fisici, stress o ulcere. Tra tutti i pazienti, il periodo di tempo intercorso tra la comparsa dei sintomi e la paura va da un minimo di pochi giorni a due anni.

I periodi di attesa più alti sono stati riscontrati nei pazienti con livelli di ansia più bassi (30 settimane di media), mentre gli ansiosi hanno una media della metà. “Gli ottimisti ad oltranza tendono a considerare la loro salute più buona di quello che è, anche se sono gravemente malati”. Il tempo necessario per rivolgersi ad un medico è stato invece in media breve in tutti i pazienti, in media una settimana.

Insomma, in alcuni casi non tutta l’ansia viene per nuocere.

Fonte: Washington University School Medicine, 2005.

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mercoledì, luglio 12, 2006

Ipertensione da camice bianco tutta colpa dell'alessitimia

ROMA - I valori della vostra pressione sono diversi quando li misurate dal medico rispetto a quando mettete mano alla macchinetta in casa? E' il fenomeno della cosiddetta ipertensione da camice bianco. Ma può anche accadere l'esatto contrario. La pressione, normale nello studio del medico, è più alta quando la misurate a casa o nella registrazione delle 24 ore: in questo caso si parla di normotensione da camice bianco o ipertensione mascherata.

La ricerca.
Medici e psicologi dell'ospedale Fatebenefratelli dell'Isola Tiberina di Roma, hanno cercato di capire quali sono le cause di questo disturbo e quali le caratteristiche dei pazienti. I risultati della ricerca, condotta su 150 soggetti (ipertesi e normotesi) d'età compresa tra 30 e 60 anni, nata in collaborazione tra l'Unità Operativa di Psicologia Clinica e il Centro per la Ipertensione Arteriosa, verranno illustrati nel prossimo Congresso Nazionale dell'AFaR - Associazione Fatebenefratelli per la Ricerca Biomedica e Sanitaria - che si svolgerà a Benevento dal 22 al 24 settembre prossimo, organizzato dall'ospedale "Sacro Cuore di Gesù".

L'alessitimia.
Dalla ricerca emerge che l'ipertensione è in relazione a un disturbo della regolazione psicologica delle emozioni, l'alessitimia: un deficit della capacità di elaborare le emozioni da un punto di vista cognitivo, una difficoltà a esprimerle, a creare un legame con l'altro stabilendo un rapporto di fiducia. Ipertensione e psiche. I soggetti ipertesi risultano più alessitimici dei non ipertesi: insicuri, lamentano in genere sintomi somatici (più che problemi psicologici o relazionali), possono avere esplosioni di collera o di pianto senza saperne il motivo e mostrano ridotta capacità empatica perché, non riuscendo a usare come segnale le proprie emozioni, non possono utilizzare quelle degli altri. Chi, invece, risulta avere una normotensione da camice bianco (o ipertensione mascherata) dimostra un attaccamento insicuro ma ambivalente: preoccupati del "troppo vicino o troppo lontano" hanno bisogno di stabilire un rapporto ma ne hanno al contempo paura.

L'età.
La ricerca mette poi in rilievo il fattore età: il fenomeno dell'ipertensione da camice bianco aumenta con gli anni, nonostante le persone anziane siano consapevoli della propria malattia e seguano da tempo una terapia. L'anziano è più fragile, più dipendente dal medico che attraverso il sintomo raccoglie le emozioni non dette. Ogni misurazione della pressione diventa, quindi, un test che valuta il proprio stato di salute.

Consigli.
"Nel corso della visita e della misurazione della pressione - spiega il professor Dario Manfellotto, responsabile del Centro per la Ipertensione del Fatebenefratelli - bisogna capire e interpretare i pensieri del paziente, studiare le sue reazioni, parlargli della malattia, sentire le sue opinioni. E', inoltre, importante fare sempre un confronto fra i dati della pressione misurati dal medico, quelli automisurati, e quelli rilevati con la registrazione nel corso di 24 ore, per verificare se esistono differenze significative".

Il congresso. Nel corso del congresso dell'AFaR, che vedrà impegnati più di 300 ricercatori provenienti da tutta Europa, verranno presentati anche studi scientifici in diversi ambiti: oncologia, riabilitazione, chirurgia tradizionale e mininvasiva, biologia molecolare, malattie mentali. In particolare una ricerca sugli aspetti etici della terapia del dolore e uno studio sul "termometro del distress", uno strumento per valutare il disagio del malato oncologico.

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giovedì, luglio 06, 2006

IPNOSI EFFICACE NELL'ALLEVIARE I DOLORI DA CANCRO

IPNOSI EFFICACE NELL'ALLEVIARE I DOLORI DA CANCRO

L'ipnosi può alleviare la sofferenza e migliorare la qualità della vita dei pazienti colpiti dal cancro. A sostenerlo è Christina Liossi, dell' University of Wales di Swansea, nel Galles.
L'ipnosi è stata già sperimentata per aiutare a smettere di fumare, a perdere peso e superare le fobie e, secondo alcuni studiosi il potenziale terapeutico reale di tale pratica rimane ancora non sfruttato.
Secondo la Liossi, c'è la prova medica che l'ipnosi contribuisce ad alleviare la depressione, la nausea, il vomito ed il dolore sofferti dai pazienti colpiti dal cancro.

C'è, inoltre, la possibilità che l'ipnosi possa aumentare la sopravvivenza dei pazienti colpiti, ma le prove per sostenerlo non sono ancora sufficienti.
La Liossi ricorda come sia noto che l'ipnosi può influenzare il sistema immunitario. Una novità emersa durante la conferenza annuale della British Association for for the Advancement of Science. Negli studi sui bambini che soffrono di cancro, la Liossi ha osservato che dei giovani sottoposti ad ipnosi, e ai quali sia stato somministrato un anestetico locale, percepiscono meno dolore durante l'intervento medico rispetto a coloro che non sono stati ipnotizzati.

Il professor John Gruzelier, dell'Imperial College di Londra, che ha usato la tecnica cosiddetta del “brain-imaging” per visualizzare l'attività del cervello, ritiene che i cambiamenti che interessano il cervello sotto ipnosi potrebbero contribuire a spiegare alcuni dei meccanismi secondo cui essa funziona e spiegare come mai chi è sotto all'ipnosi obbedisca a quanto chiesto. In ogni caso, pur non essendoci ancora prove definitive su come funzioni, l'ipnosi è uno strumento terapeutico magnifico.

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lunedì, luglio 03, 2006

L'anticancro "a tenaglia"

Dalle ricerche sulle leucemie di Pandolfi due farmaci contro i tumori di prostata, seno, colon e polmone

AMSTERDAMUna cura "a tenaglia" potrebbe fermare i quattro big killer, i tumori di polmone, prostata, colon e seno. Sulla prostata, prima nelle cavie e poi nell'uomo, sta dando ottimi risultati tanto che sono già in preparazione le sperimentazioni per gli altri tre tumori negli animali. Le "punte" della "tenaglia" sono due farmaci noti e in commercio da tempo con altre indicazioni terapeutiche. Ma si è scoperto che agiscono anche sull' "acceleratore" e sul "freno" della riproduzione, i geni con cui la cellula regola la velocità della sua moltiplicazione e il cui mal funzionamento porta inevitabilmente al cancro.

Il risultato è stato illustrato da Pier Paolo Pandolfi, direttore della ricerca di base del Memorial Sloan Kettering Institute di New York (dove si sta ultimando la costruzione di un nuovo grattacielo di ricerca e cura del cancro da 100 milioni di dollari) a margine del Congresso europeo di ematologia ad Amsterdam."Il farmaco che contrasta l'acceleratore", ha spiegato Pandolfi, "è la rapamicina, usato da anni nei trapianti per opporsi alla reazione di rigetto. Il farmaco che invece spinge direttamente sul freno naturale della moltiplicazione della cellula è l'interferone, nei suoi vari tipi. La decisione di sperimentarli accoppiati sul tumore della prostata, prima nei topi e poi nell'uomo, però non è stata casuale. Nasce dalla ricostruzione, ingranaggio dopo ingranaggio, in quindici anni di ricerca, del complesso meccanismo genetico con cui la cellula tiene sotto controllo la sua capacità di riproduzione e che, se rimane senza freni genera appunto il cancro. È dalla recente scoperta che il "gene-freno", PML, si trova alterato non solo in una rara forma di leucemia, la promielocitica acuta, dove fu individuato nel 1991, ma anche in un'altissima percentuale di casi (per la prostata è alterato nel 70 per cento dei malati) nei quattro big killer.Responsabilità allargate a questi tumori molto diffusi sono state trovate anche per il complesso dei geni acceleratori (tra cui il gene AKT).

E così, mettendo insieme le nuove conoscenze con quelle vecchie sui meccanismi d'azione dei due farmaci si è arrivati a decidere la prova sul tumore della prostata.La sperimentazione della tenaglia interferone-rapamicina avrà un filone italiano. Anche l'Istituto Tumori di Roma si appresta a varare un protocollo di ricerca che avrà per oggetto, probabilmente, il tumore al seno.Ancora lontane invece - ma meno di quanto lo sembravano quando fu scoperto il gene PML - le prospettive terapeutiche di un altro gene di cui si è molto parlato al congresso di Amsterdam. Si tratta di NPM scoperto da Brunangelo Falini, ematologo dell'Università di Perugia."Anche questo gene", ha spiegato Falini invitato ad Amsterdam per illustrare le sue scoperte, "si è visto per la prima volta in una forma di leucemia grave e ora si stanno individuando sue responsabilità molto più ampie e complesse. Le ricerche stanno delineando per NPM una ruolo di "guardiano" del Dna, nel senso che il suo corretto funzionamento impedisce ai geni di alterarsi e innescare il cancro".

Trovare un farmaco che ripristini il corretto funzionamento del gene NPM avrebbe quindi delle enormi conseguenze nella cura del cancro in genere, male che inizia a spaventare anche dal punto di vista economico. "A differenza dei vecchi farmaci su cui sta lavorando Pandolfi, i nuovi, i cosiddetti "intelligenti", prodotti dalla biotecnologia", ha concluso Falini, "hanno dei costi che presto saranno insostenibili per la nostra sanità. In cinque anni nel mio istituto le cure sono passate da essere un peso economico quasi irrisorio all'attuale 40 per cento delle spese. E noi curiamo i tumori del sangue che in Italia sono qualche migliaio di casi l'anno.

Che succederà quando arriveranno i farmaci "intelligenti" per i tumori più diffusi in Italia, i big killer appunto, che colpiscono decine e decine di migliaia di persone ogni anno?".

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venerdì, giugno 23, 2006

Giornata Nazionale del Malato Oncologico

GIUGNO interamente dedicato all'oncologia.

In Italia un milione e seicentomila persone convivono o hanno vissuto con un tumore. Nel 2010 saranno due milioni. La prima Giornata Nazionale del Malato Oncologico domenica, 4 giugno 2006, è la celebrazione della vita da parte di chi ha rischiato di perderla. Simbolicamente rappresentata dal cedro, è dedicata a chi è malato, agli ex malati, a quanti sono sopravvissuti al cancroe alle loro famiglie. La Giornata organizzata dalla Federazione delle Associazioni di Volontariato in Oncologia (Favo) nell'ambito della Campagna d'informazione "Con il malato, contro il tumore", prevede a Roma e Milano spettacoli d'intrattenimento, aree dedicate ai bambini con dimostrazione di clownterapia, dibattiti durante i quali saranno illustrati i risultati ottenuti dal volontariato e incontri tra pazienti, cittadini, oncologi per capire e sapere di più sui tumori.

Chiunque può contribuire con 1 euro inviando un Sms solidale al numero: 48588. Alle tematiche della qualità di vita del paziente oncologico si sono svolti i terzi Stati Generali dei malati di tumore, organizzati dalla Lega Italiana per la Lotta ai Tumori ad Agrigento. "Sappiamo che la risposta organizzativa alla sofferenza del malato e dei suoi familiari", dice Francesco Verdecchia, oncologo medico all'ospedale di Sciacca "è molto disomogenea, debole al Sud più forte al Nord". Tre le vie da battere: percorsi organizzativi con supporti strutturali e psicologici per facilitare i malati; riabilitazione sociale e fisica per i tanti che guariscono attraverso mutilazioni corporee e psicologiche; alimentazione, perché i malati di tumore non mangiano come dovrebbero e il pasto diventa momento di conflitto con i familiari. Mentre bastano piccole strategie per favorire l'appetito, eliminare la nausea ed evitare il vomito. In una parola rendere accettabile la vita di tutti i giorni.La sfida per i medici che ogni giorno lavorano contro il cancro e lo combattono, non è sulla scelta della migliore terapia quanto sul modo più idoneo di parlare e rapportarsi con il paziente e i suoi familiari.

Quando arriva il giorno di incontrare il malato, seduti entrambi ai lati opposti di un tavolo, quello per l'oncologo è il momento della vera sfida. Perché quando si tratta di "dire" o "non dire" le competenze tecniche da sole non bastano più. C'è bisogno di un contesto, di un'organizzazione e, come osserva Manuel Katz, psiconcologo e consulente aziendale di "Suono e Silenzio", società che si occupa di formazione consapevole in oncologia, coordinata da Dr. Massimiliano Zisa, psicologo, "c'è bisogno di "spazio" che i modelli organizzativi aziendali non forniscono agli oncologi né agli infermieri: non possiamo pretendere che siano capaci di farlo senza un aiuto. L'oncologo e il suo staff possono vedere i bisogni del malato solo se qualcun altro si occupa dei loro stessi bisogni". Informare o non informare il paziente con un tumore passa comunque attraverso una comunicazione e significa, nel migliore dei casi, invadere la sfera più intima del malato. "Uno dei punti su cui si lavora di più", racconta Manuel Katz ", è proprio la difficoltà da parte del medico di rispettare l'autonomia del paziente e sapere sin dove poter arrivare.

Gli oncologi italiani sono molto sensibili alla problematica, c'è un'enorme consapevolezza di questo bisogno, stessa cosa per gli infermieri che sono demotivati e poco incentivati. In altri paesi, ad esempio in Israele, c'è un forte supporto psicologico per i pazienti un po' meno per i medici, il vero punto è l'educazione e il modello organizzativo.Ma come si arriva a capire e a soddisfare i bisogni relazionali ed esistenziali del paziente, del medico e dell'infermiere? Come si valorizzano le risorse interiori di ciascuno dei protagonisti? Gli esperti in formazione ricorrono a diversi protocolli di comunicazione dei quali si discute in successivi incontri organizzati per piccoli gruppi.

Questi i punti essenziali:
- Non fare da intermediari
- Necessità di uno spazio specifico
- Verifica cosa il paziente sa già
- Verifica in maniera esplicita cosa il paziente vuole sapere
- Se il paziente vuole sapere condividi l'informazione
- Accogli le reazioni del paziente
- Programma lo stadio successivo
- Verifica tu, medico, come stai prima di proseguire.

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giovedì, giugno 15, 2006

Psiconcologia - Storia

da un articolo di :LUIGI GRASSI, GABRIELLA MORASSO

Nonostante i numerosi e significativi progressi scientifici in ambito oncologico, che hanno sicuramente determinato un netto miglioramento degli approcci terapeutici e un aumento della sopravvivenza dei pazienti, il cancro resta a tutt’oggi oggi una delle malattie a più ampia diffusione ed una delle principali cause di morte in ogni parte del mondo. Nell’immaginario individuale e collettivo il cancro continua, di fatto, ad associarsi a significati di sofferenza fisica e psichica, di morte ineluttabile, di stigma e diversità (l’essere estraneo e straniero), di colpa e vergogna. È quanto Susan Sontag (1979) definisce "bardature metaforiche" che, per il cancro, da sempre risvegliano l’idea di un processo insidioso, misterioso e destruente, divorante e contagioso. È quanto Fornari (1984) identifica nel antinomìa amico-nemico, dove il "nemico" riesce a modificare e ad incidere sugli affetti attraverso impronte inalterabili che permeano le emozioni, i pensieri ed i comportamenti della persona colpita, sia nella sue dimensione individuale che relazionale. È ciò che Tolstoj, nel noto racconto La morte di Ivan Il’ič (1976), coglie nelle parole del protagonista "(…) Il dottore aveva parlato di sofferenze fisiche e a ragione; ma più terribili delle sofferenze fisiche erano le sofferenze morali. (…) Il principale tormento di Ivan era la menzogna (…) che non volessero riconoscere quello che tutti sapevano e che anche lui sapeva (…) e costringessero anche lui ad aver parte alla menzogna". È infine ciò che Maher (1982), riprendendo concetti durkeimiani, coglie sottolineando il senso di anomia attivato dal cancro come evento che interviene bruscamente ed improvvisamente, alterando l’equilibrio individuale e intereprsonale, paralizzando le capacità di regolazione e di riassestamento ed evocando un clima (o un sentimento transpersonale) di incertezza e indeterminatezza.
È su queste basi che si è via via sempre più presentata la necessità di una comprensione allargata e globale delle malattie neoplastiche, come epifenomeno di processi somato-psichici e interpersonale e che ha determinato lo sviluppo della disciplina psiconcologia (Grassi e Morasso, 1998).

IL PASSATO DELLA PSICONCOLOGIA
In realtà è a partire dagli inizi del '900 che la necessità di mantenere una visione globale del paziente affetto da qualunque patologia somatica e di approfondire la conoscenza dei correlati psicologici delle malattie ha comportato una evidente collaborazione tra discipline mediche e psichiatriche. È del 1902 la costituzione, negli Stati Uniti, del primo reparto psichiatrico in un ospedale generale e degli anni '20 la nascita della Psichiatria di Consultazione come branca specificamente rivolta alla valutazione e trattamento di problemi psicologi di pazienti affetti da patologie somatiche. Proprio in tale disciplina, sviluppatasi presto anche in altre parti del mondo, si pongono dunque le premesse per istituire e diffondere modelli teorici e assistenziali applicati alle diverse branche medico-chirurgiche. Tra gli anni '40 e ‘50, l'oncologia, la cardiologia, l'ostetricia e la ginecologia, e la dermatologia, rappresentano le discipline più interessate al fenomeno (Lipowsky, 1986). In esse vengono applicati in maniera diretta e precisa i principi di base della Psichiatria di Consultazione: a) la necessità di valutare l'influenza delle variabili emozionali nell'esordio delle malattie (patogenesi psicosomatica); b) necessità di studiare gli effetti dell'interazione tra fattori psicologici e fattori biologici (psicobiologia); c) la necessità di training educativi del medico a riconoscere i problemi psichiatrici e psicosociali dei pazienti affetti da malattie fisiche, quindi a mettere in atto opportune terapie; d) la necessità, infine, di sviluppare ricerche sperimentali in tali aree.

In ambito oncologico, i paesi anglosassoni hanno avuto, in questo, un ruolo sicuramente di guida. Gli anni ’30 e ’40 preparano il terreno all’ingresso delle discipline psicologico-psichiatriche attraverso la fondazione, nel 1937, del National Cancer Institute (NCI) (http://www.nci.nih.gov/) e della International Union Against Cancer (http://www.uicc.org), mentre l’American Cancer Society (http://www.cancer.org) promuove in questo stesso periodo i primi gruppi di auto-aiuto attraverso il reclutamento e la formazione di pazienti laringectomizzati e colostomizzati, comprendendo l’importanza dell’informazione e del confronto reciproco tra le persone che hanno vissuto la stessa esperienza di malattia (Holland, 1998). Il programma "Reach to Recovery" (http://cope.uicc.org/breast/rri/rri.html), promuovendo il confronto e la solidarietà tra donne operate per cancro della mammella e pazienti si diffonde con successo in molti paesi del mondo. Sono immediatamente successivi i primi esempi dello sforzo compiuto per offrire ai pazienti neoplastici interventi a carattere psicosociale tesi a garantire sollievo rispetto alla sofferenza psicologica secondaria al cancro. L’attivazione di un servizio specifico in questo senso nel 1950 dallo psichiatra Arthur Sutherland presso il Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York, il lavoro della psichiatra svizzera Kübler-Ross sulle reazioni psicologiche del paziente con cancro in fase terminale di malattia e lo sviluppo di servizi analoghi, nel 1967, da parte di Cicely Saunders, a Londra, presso il St. Cristopher Hospice, rappresentano punti cardine per la Psiconcologia.

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domenica, giugno 11, 2006

Prevenzione del cancro prostata.
a Cura di: Massimo D'Aiuto

U. Veronesi: Maschi, dopo i 50 anni dovete controllare la prostata

E’ l’opinione del professor Umberto Veronesi, direttore scientifico dello Ieo (Istituto oncologico europeo), promotore del movimento "Europa Uomo", analogo a quello già avviato dallo stesso oncologo "Europa Donna" sulla prevenzione del tumore alla mammella. L’iniziativa è sostenuta dalla Lega italiana per la lotta contro i tumori. «Oggi gli uomini possono sottoporsi all’esame del Psa (dal sangue) che riconosce un’eventuale presenza di tumore dell’organo maschile», spiega ancora Veronesi, «anche se crea ancora ansia tra coloro che vi si sottopongono perché riconosce tutte le malattie della prostata e non solo il tumore». Tra i Paesi che hanno già aderito ad "Europa Uomo" figurano Francia, Germania, Belgio, Gran Bretagna, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Norvegia, Svezia e Danimarca. Per l’oncologo italiano, ex ministro della Sanità, gli uomini dopo i 50 anni devono sottoporsi al test del Psa (prostate specific antigen): «In caso di tumore della prostata, l’intervento chirurgico è favorevole per i sessantenni ai quali è stato riscontrato precocemente; per gli ultra settantenni, invece, conviene un trattamento con la radioterapia conformazionale che attraverso una Tac riesce a seguire esattamente la conformazione dell’organo malato senza intaccare gli altri tessuti. Dei 500 casi seguiti finora, con questa terapia, il 98 per cento è guarito». Tra le altre novità anche la terapia con i protoni e gli ioni al carbonio. I tumori della prostata sono in crescita in tutto il mondo e il trend cresce proprio per l’aumento della popolazione anziana. L’Italia nel 2000 ha stabilito il record di anzianità tra i Paesi occidentali con 14,8 anziani su 100 giovani e sono 9.303.000 i maschi over 50. Solo però il 22 per cento degli uomini tra i 50 e i 70 conosce il Psa che negli Stati Uniti è conosciuto dal 48 per cento degli uomini. Lazio, Puglia e Lombardia saranno le regioni pilota del progetto che dovrà coinvolgere gli uomini appunto sulla prevenzione del tumore della prostata. «La Lega italiana per la lotta contro i tumori», chiarisce il presidente, professor Francesco Schittulli, «formerà il personale sanitario sulle campagne di prevenzione e renderà operativi i propri ambulatori territoriali per la diagnosi precoce». «Questo cancro rappresenta il 15 per cento di tutti i tumori maschili ed è», avverte il professor Louis Denis, di Anversa, urologo di fama mondiale e consulente di Europa Uomo, «il secondo per mortalità dopo quello polmonare. Nel mondo il 30 per cento degli uomini sopra i 50 anni contrae questo tumore, circa il 10 sviluppa la malattia e il 3 per cento muore. L’intervento può portare all’incontinenza nel 550 per cento dei casi, e all’impotenza nel 3080». Le differenze numeriche delle complicanze dipendono dalla bravura del chirurgo.

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giovedì, giugno 08, 2006

Quell' invisibile terapia del dolore

Secondo un recente sondaggio, quattro persone su cinque non sanno neppure che in Italia esistono specialisti e di ambulatori ad hoc.
articolo di :
Donatella Barus


MILANO
– Negli ultimi anni il consumo dei farmaci a carico del Sistema Sanitario Nazionale per il trattamento del dolore è quasi triplicato e la spesa per questi medicinali è raddoppiata, ma 4 italiani su 5 neppure sanno che esistono medici e centri specializzati in questo settore.
Dai dati di un sondaggio condotto dalla Ipsos a metà maggio, infatti, solo il 22 per cento degli intervistati è a conoscenza del fatto che ci sono terapie mirate a lenire la sofferenza dei malati, e si tratta perlopiù di donne (non a caso, le più coinvolte nell’impegno di cura di anziani e infermi), di persone istruite, con uno status socio-economico elevato e residenti nelle regioni settentrionali. Spicca una forte carenza di informazioni, invece, nel centro-sud e tra i più giovani, che in larga parte ancora non hanno dovuto confrontarsi con queste problematiche. In generale, poi, la terapia del dolore in Italia continua ad avere il sapore di un’occasione mancata, per cui 24 persone su cento hanno avuto esperienza diretta (personale o di un familiare) di un dolore cronico, ma soltanto la metà, il 12 per cento, dichiara di avere fatto ricorso a cure antalgiche specifiche.
Questo quadro, che illustra bene quanto ci sia ancora da fare sul fronte dell’informazione per i pazienti e le loro famiglie, è stato delineato in occasione della presentazione della Quinta Giornata nazionale del Sollievo, promossa dalla Fondazione Nazionale “Gigi Ghirotti”, dal ministero della Salute e dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e prevista quest’anno per domenica 28 maggio. Scopo dell’iniziativa (vedi gli eventi nelle diverse Regioni) è proprio aumentare la soglia di consapevolezza e di sensibilità sul diritto a non soffrire e, al tempo stesso, intaccare la barriera di solitudine e isolamento che imprigiona molti malati, anche oncologici.
Insiste sull’informazione dei cittadini anche il neo-ministro della Salute LiviaTurco, che domenica ha inaugurato il suo mandato celebrando la Giornata presso il Policlinico Gemelli a Roma e che in un messaggio a Bruno Vespa, presidente della Fondazione Ghirotti, afferma di voler affrontare le evidenti «difficoltà di orientamento» dei pazienti: «Si fa fatica - dice - ad entrare in possesso delle informazioni giuste, a sapere con certezza quale è la struttura più idonea alla quale rivolgersi, qual è il percorso più virtuoso». E stila una lista delle cose da fare «con urgenza», includendo la «sburocratizzazione» della prescrizione dei farmaci oppiacei (cioè eliminare l’ostacolo ancora ingombrante del ricettario speciale), l’obbligo dell’aggiornamento per gli operatori, con un occhio di riguardo per i medici di medicina generale, il sostegno all’applicazione negli ospedali delle linee guida per un Ospedale senza dolore, prima fra tutti la misurazione del dolore e la sua registrazione come parametro vitale all’interno della cartella clinica.
Il nostro Paese, in effetti, non riesce a staccarsi dalla posizione di fanalino di coda, in Europa e nel mondo, nelle graduatorie dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sull’utilizzazione di farmaci oppiacei, anche se le nuove norme in materia hanno rivoluzionato l’accesso a questo tipo di analgesici. Come dicevamo, la spesa del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) in questo settore è passata da 34,5 milioni di euro nel 2004 a 60,9 milioni nel 2005, mentre nello stesso periodo il consumo in dosi dei medicinali per il trattamento del dolore rimborsati ai pazienti è passato da 7,9 milioni a oltre 22 milioni di dosi, secondo l’AIFA, l’Agenzia Italiana del Farmaco, grazie alla rimborsabilità di nuovi preparati e alla disponibilità di nuove confezioni di medicinali già rimborsati. Unico neo, un calo del consumo di morfina che, sostiene l’AIFA, «rimane il trattamento di base del dolore grave e la cui prescrizione è stata sostituita con farmaci molto costosi per via transdermica (i “cerotti”, ndr), ma non più efficaci o parimenti efficaci della morfina per via orale». Non è estranea a questo stallo una certa ambiguità introdotta dalla nuova legislazione in tema di sostanze stupefacenti che non distingue a dovere tra uso terapeutico e abuso gratuito, stando al parere di addetti ai lavori di tutto rispetto, come Franco Caprino, segretario nazionale di Federfarma, e Franco Henriquet, anestesiologo genovese da vent’anni anima della Fondazione Ghirotti.

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venerdì, maggio 26, 2006

Tumori (exursus)

Dopo le malattie cardiocircolatorie, i tumori sono la maggiore causa di decesso. Nonostante la ricerca scientifica abbia fatto progressi enormi nel campo delle terapie e dell’individuazione precoce dei tumori, non si è ancora trovato il farmaco “miracoloso” che possa sconfiggere questo male. Le autorità sanitarie sono sempre più convinte che la via per sconfiggere la malattia sia la prevenzione. E il National Cancer Institute (l’Istituto Nazionale sul Cancro), la massima autorità statunitense sull’argomento, ha ammesso che le abitudini alimentari e le condizioni ambientali sono le cause principali della maggior parte dei tumori.

Come si manifesta
In condizioni normali il nostro organismo produce continuamente cellule nuove: per sostituire quelle vecchie, per svilupparsi o per riparare una ferita. Di solito, appena ultimato il compito, la formazione di nuove cellule si arresta. In alcuni casi, però, questo meccanismo di controllo si inceppa. Le cellule continuano a formarsi, dando vita a quello che è conosciuto come un tumore, o neoplasia, che può essere benigno o maligno.
Il tumore benigno. Cresce lentamente: sviluppandosi può creare fastidi premendo sui tessuti vicini, ma non li invade e non interferisce con il funzionamento di altri organi.
Il tumore maligno, o cancro. A differenza di quello benigno, a mano a mano che cresce, si infiltra nei tessuti circostanti distruggendoli. Inoltre, attraverso i vasi sanguigni e i vasi linfatici, può diffondersi ad altre parti dell’organismo, creando localizzazioni secondarie, dette metastasi, che, a loro volta, si sviluppano in modo indipendente.

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